Chi ha ordinato l’omicidio dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri ucciso il 14 febbraio del 2005? Il verdetto comunicato il 18 agosto dal tribunale speciale per il Libano con base all’Aja (Tsl) non ha fornito una risposta alla domanda che perseguita la vita politica libanese da quindici anni. Nella capitale Beirut è stato ordinato un massiccio dispiegamento dell’esercito per impedire disordini dopo la comunicazione di questo verdetto tanto atteso.
Dei quattro presunti esponenti di Hezbollah giudicati in contumacia per l’attentato (che aveva provocato 22 morti e 200 feriti), solo uno è stato riconosciuto colpevole di aver partecipato all’operazione.
“Il tribunale di prima istanza dichiara Salim Ayyash colpevole oltre ogni ragionevole dubbio in quanto coautore dell’omicidio premeditato di Rafiq Hariri”, ha dichiarato il presidente del tribunale David Re, assolvendo dunque gli altri tre sospetti: Hassan Merhi, Hussein Oneissi e Assad Sabra. Salim Ayyash, 56 anni, il principale sospettato, è stato così riconosciuto colpevole di aver comandato la squadra che ha compiuto l’attentato contro Hariri. Mustafa Badreddine, considerato “il cervello” dell’operazione, è stato ucciso in Siria nel 2016.
Senza prove evidenti
Nonostante all’indomani dell’attentato tutti gli sguardi si fossero rivolti verso Damasco ed Hezbollah, il procuratore aveva chiesto ai giudici di non accusare esplicitamente né organizzazioni né stati. “Pensiamo che la Siria ed Hezbollah abbiano avuto un interesse nella morte di Hariri, ma non esistono prove di una responsabilità diretta delle autorità siriane o di Hezbollah”, ha dichiarato la giudice Janet Nosworthy all’inizio del verdetto.
L’ex primo ministro Saad Hariri, figlio del miliardario sunnita assassinato nel 2005, era presente in tribunale e ha dichiarato di “accettare” il verdetto. “Il tribunale ha deliberato. In nome della mia famiglia e in nome delle famiglie dei martiri e delle vittime accettiamo la decisione dei giudici”, ha comunicato alla stampa uscendo dal tribunale.
Hezbollah aveva già fatto sapere di non dare nessun valore al tribunale speciale, creato nel 2007 e con sede nei Paesi Bassi.
Inizialmente il Tls doveva annunciare il verdetto il 7 agosto, ma per rispetto nei confronti delle vittime della terribile esplosione che il 4 agosto ha devastato una parte di Beirut è stato deciso di rinviare al 18 agosto la sentenza su uno degli eventi politici più traumatici nella storia del paese.
Rafiq Hariri aveva avuto un ruolo nel chiedere il ritiro dal Libano delle “forze straniere”, ovvero la Siria
Il 14 febbraio 2005, nel lussuoso quartiere degli alberghi situato nel centro della capitale, si verificò una gigantesca esplosione avvertita in gran parte della città.
Un furgone carico di quasi due tonnellate di esplosivo saltò in aria al passaggio del convoglio dell’ex primo ministro, in quel momento a capo dell’opposizione. Hariri perse la vita insieme ad altre ventuno persone. Nell’esplosione, che creò un cratere di dieci metri, rimasero ferite più di 200 persone.
Rafiq Hariri, che si era dimesso dall’incarico di primo ministro un anno prima in segno di protesta contro il presidente Émile Lahoud, giudicato troppo vicino alla Siria, sapeva di essere in pericolo. Qualche mese prima aveva avuto un ruolo (seppur mai rivendicato) nell’adozione da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu della risoluzione 1559, che chiedeva il ritiro dal Libano delle “forze straniere”, ovvero la Siria.
In visita a Parigi una settimana prima della morte, Hariri era stato formalmente messo in guardia dal suo amico Jacques Chirac, l’ex presidente francese. Incaricato di verificare il rispetto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, l’inviato dell’Onu probabilmente aveva consigliato ad Hariri di lasciare il paese dopo un incontro con Bashar al Assad in cui il presidente siriano si era mostrato molto minaccioso.
Inchiesta a caro prezzo
Il verdetto annunciato il 18 agosto arriva al termine di una lunghissima inchiesta che secondo le stime del New York Times sarebbe costata oltre un miliardo di dollari. Il Tsl riferisce di aver ascoltato 297 testimoni e di aver valutato 3.131 prove.
L’indagine per risalire ai mandanti dell’attentato è stata piena di ostacoli, in un paese in cui le ferite ereditate dalla guerra civile sono ancora aperte. All’indomani dell’esplosione diverse ruspe furono inviate sul luogo dell’attentato, come per seppellire le tracce e le responsabilità.
L’attentato in un primo momento lo rivendica uno studente saudita di nome Abu Adass in un video trasmesso dall’emittente qatariota Al Jazeera, ma l’inchiesta ha dimostrato che si trattò di una manovra per confondere le acque. L’ostilità nei confronti dell’indagine internazionale (soprattutto da parte di ambienti vicini a Hezbollah) è stata molto forte e per molto tempo ha paralizzato l’attività degli inquirenti. Fin dall’inizio le Forze di sicurezza interne (Fsi) si sono orientate verso Hezbollah, svelando una complessa operazione di sorveglianza nei confronti di Hariri organizzata da esponenti legati all’organizzazione sciita.
Alcune delle persone che hanno partecipato all’inchiesta hanno pagato a caro prezzo il loro impegno. Nel settembre 2006 il tenente colonnello Samir Chéhadé, supervisore dell’indagine, è stato gravemente ferito in un attentato che è costato la vita a quattro delle sue guardie del corpo. Il capitano Wissam Eid, l’uomo che ha permesso di svelare la rete di comunicazioni dei componenti del commando, è stato ucciso in un attentato due anni dopo. Nel 2012 è stato eliminato anche il capo dei servizi d’informazione delle Fsi Wissam al Hassan.
Anche se l’indagine del Tsl non ha nascosto il coinvolgimento di elementi vicini all’organizzazione sciita e a Damasco, il verdetto sottolinea la “mancanza di prove” e di conseguenza scontenterà tutti quei libanesi (soprattutto sunniti) che speravano di scoprire finalmente la verità su quel tragico evento. Per altri, invece, la priorità è quella di non aggravare le spaccature interne alla società libanese, ancora traumatizzata dall’esplosione che ha devastato Beirut appena due settimane fa.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito su Mediapart.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it