Avete appena ricevuto una somma di denaro inattesa. Qual è la prima cosa per cui spendereste dei soldi? Se la vostra scelta è una vacanza di lusso, con che mezzo partireste? Gli statunitensi sono in cima alla lista dei consumatori interessati ai viaggi privati, perciò ecco un indizio. Molti di noi preferirebbero rinunciare all’esperienza del volo commerciale, ma le possibilità di poter noleggiare un aereo privato sono pari a quelle di vincere alla lotteria per chiunque non si trovi nell’1 per cento più ricco della popolazione. Questo però non significa che i voli commerciali siano privi di un loro spietato sistema classista.
Come nel caso della vita a terra, la mobilità sociale nei cieli è garantita dal denaro e da una serie di considerazioni di secondaria importanza come la “lealtà”, che significano comunque denaro. La maggioranza di noi sta sul gradino più basso, ossia viaggia nella cabina principale, dove si trova circa il 70 per cento dei posti su un Boeing 737. E le compagnie aeree fanno di tutto per ricordarcelo. La nostra posizione inferiore è sancita a ogni chiamata per zone di imbarco, che classificano i passeggeri con tutta la sensibilità di una catena di montaggio. Ogni cappelliera strapiena ci deride mentre transitiamo mestamente oltre la prima classe o la classe business. Di tanto in tanto qualcuno di noi riesce a usare la carta di credito aziendale per avere un piccolo comfort, ma quando si viaggia pagando di tasca propria è più probabile dover affrontare la triste realtà del posto 28F in economy.
O forse, e dico forse, potete cercare un po’ meglio nelle vostre tasche e tirare fuori gli ultimi spiccioli per traslocare in un quartiere un po’ più attraente: la premium economy. Pur non garantendo il lusso di un posto in business, la premium (che ha diversi nomi a seconda della compagnia aerea) offre una serie di comfort: qualche centimetro in più di spazio per le gambe, un kit igienico con prodotti Malin+Goetz o un pasto “ispirato dallo chef” con birra artigianale sono solo alcune delle gratifiche offerte dalle varie compagnie aeree. Negli ultimi anni è emersa una sottocategoria di passeggeri entusiasti di poter accedere al servizio leggermente più raffinato della premium economy. “Una delle tendenze di cui oggi tutti parlano nel settore del trasporto aereo, soprattutto dopo la pandemia, è una maggiore disponibilità da parte di chi viaggia per svago ad acquistare un posto in economy premium”, mi ha detto Rob Britton, docente associato alla Georgetown university ed ex direttore generale di American Airlines. I viaggi di lavoro, di solito la principale fonte di guadagno per le compagnie aeree, sono crollati nel 2020 e oggi queste compagnie guardano ai rampanti millennial come a un’ancora di salvezza. “Le coppie di trentacinquenni che vanno a Parigi stanno colmando i vuoti”.
Come un padrone di casa
A metà degli anni duemila, quando un importante costruttore di velivoli progettava un nuovo modello, studiava il costo per centimetro quadrato degli immobili nei mercati più cari del mondo: New York, Parigi, Londra. Poi considerava il costo per centimetro quadrato sugli aerei. Non c’era paragone, mi ha raccontato Uzma Khan, docente di marketing all’università di Miami. “Dal punto di vista di una compagnia aerea, qual è la cosa più costosa che è possibile offrirvi? L’equivalente della proprietà immobiliare in volo”. Sotto questo aspetto, le compagnie aeree funzionano come una sorta di padrone di casa, calcolando quanto costa trasportare sfrecciando ogni singolo passeggero da un posto all’altro e aggiungendoci un sano supplemento di prezzo.
Storicamente i posti nella parte anteriore dell’aereo sovvenzionavano tutto il resto, poiché i viaggiatori in giacca e cravatta di Bain, Deloitte o Baker McKenzie di sicuro avrebbero acquistato i biglietti più costosi della classe business. Tuttavia le compagnie aeree avevano margini molto stretti. E nel 2008 l’incremento dei costi del carburante e il calo della domanda ha indotto le compagnie aeree a scollegare le comodità standard dai biglietti di economy per poter mantenere i prezzi competitivi. Nel corso del tempo si sono fatte perdonare non solo vendendo miglia su carta di credito, contratti aziendali e spazio per il bagaglio, ma anche usando la premium economy per vendere un flebile sentore di lusso a vacanzieri come Kelsey Masters, una project manager di New York.
Ancora una volta le compagnie aeree hanno ricavato una nuova classe sociale dall’abitudine di volare, come con la prima classe e la business class
Per sua stessa ammissione, Masters ha il terrore di volare ma fa frequenti viaggi all’estero per andare a trovare parenti e amici. Mi ha descritto le sue abitudini di acquisto con una stanca accettazione che caratterizza ciò che pensa in generale dei viaggi in aereo durante la pandemia: “Al diavolo. Sessanta dollari per un upgrade? Mi danno più spazio per le gambe e una bibita gratis e posso stare un po’ più tranquilla? Mi sembra una cosa ottima in questo momento”. Invece di sperperare al momento di pianificare il viaggio, cerca di comprare prima possibile il biglietto più economico per poi lasciare che siano le circostanze del giorno del viaggio a guidare le sue decisioni in merito alle promozioni. Pesanti elementi di stress in aeroporto, il viaggio in sé, o perfino le notti di sonno irregolare sul divano letto nel soggiorno di un amico “mi inducono a riconsiderare il costo opportunità di un dollaro”.
La premium economy è diventata un importante fattore di guadagno per le compagnie aeree che, secondo il centro studi sul mercato aerospaziale Counterpoint market intelligence, prevedono di triplicare la riserva di posti premium entro il 2025. In origine però non erano i viaggiatori come Masters il target principale. Britton ha spiegato che la premium economy non è stata creata per convincere persone dinamiche a valicare i confini tra le classi di volo; le compagnie aeree le avevano pensate per fare presa sugli ego acciaccati di ex membri della business quando il mondo delle aziende ha iniziato seriamente a imporsi dei limiti e a tagliare i budget per i viaggi dei dipendenti. In un suo recente rapporto, il consulente aziendale Jay Sorensen osservava che per queste compagnie aeree “a quanto pare la scoperta di un nuovo tipo di viaggiatore per motivi di svago appartenente a una fascia alta” è stata una bella sorpresa. Ha rappresentato un piccolo miracolo: ancora una volta le compagnie aeree hanno ricavato una nuova classe sociale dall’abitudine di volare, come avevano già fatto con la prima classe e la classe business. E hanno potuto farlo in parte a causa di un fenomeno definito “dolore del pagamento”.
Disagio calcolato
Secondo la professoressa Khan, la gente spesso sperimenta un “vero e proprio dolore fisico” quando paga qualcosa. Gli umani però possono avere una memoria davvero corta. Se le compagnie aeree creano una distanza sufficiente tra l’acquisto iniziale del biglietto e la possibilità di fare un upgrade, è più probabile che i passeggeri pensino a quest’ultimo come a un costo a sé stante. “Molti upgrade avvengono perché ti trovi in aeroporto, o stai facendo il check in, e ti viene data l’opportunità di farlo. Nemmeno ricordi più quanto hai pagato di preciso per il volo al momento di prenotarlo, perciò quel dolore è ormai svanito”, spiega Khan. In sostanza non prendiamo in considerazione il totale perché abbiamo già interiorizzato la spesa iniziale.
Al momento del viaggio, un extra di 43 euro o giù di lì per migliorare un volo a breve percorrenza – anche se di poco – non sembra così terribile, soprattutto se incombe la minaccia di soffrire in economy. Nel 2014 l’esperto di norme sulla concorrenza Tim Wu ha coniato l’espressione “disagio calcolato” per descrivere le condizioni della classe economy di base, affermando che le compagnie aeree offrono di proposito un servizio al di sotto degli standard per costringere i clienti a pagare servizi che prima erano gratis, per esempio la scelta del posto, il bagaglio in stiva o le modifiche di itinerario. “È solo una questione di scomodità fisica che si traduce in un debito emotivo”, spiega Wesley Kang, cofondatore di Nimble Made, un marchio di abbigliamento online, che viaggia spesso in aereo sia per svago sia per andare a trovare parenti. “Meno ti muovi, meno devi sistemarti, meno indelicato sarai nei confronti della persona che ti siede accanto”.
C’è naturalmente un’altra opinione diffusa sulla premium economy, ossia che si tratti solo di un malcelato tentativo di indurre i passeggeri a pagare di più per un’esperienza solo di poco migliore. Chi la pensa così sottolinea in modo impietoso lo sfarzo e l’esagerazione con cui è pubblicizzata la premium economy. Un posto di classe superiore dopo tutto non ti farà arrivare a destinazione più velocemente o in modo più sicuro. Per molti versi la ricerca conferma questa linea di pensiero. Khan fa riferimento a diversi studi condotti per stabilire fino a che punto sia lo spazio a determinare nel complesso l’esperienza di viaggio dei passeggeri. Un costruttore di aerei ha chiesto a dei focus group di provare diverse configurazioni di posti all’interno del suo prototipo, offrendo in alcuni casi un po’ più di spazio per le gambe e in altri un po’ più di spazio per i gomiti. “Non aveva alcun effetto sulla soddisfazione del cliente”, ha affermato Khan. “Le persone avvertono la differenza solo se offri cinque o sei centimetri in più al livello degli occhi, perché è la percezione dello spazio a contare davvero”.
Si potrebbe affermare che l’ascesa della premium economy fosse prevedibile da un punto di vista culturale. I coccolatissimi millennial rampanti che viaggiano in aereo e pretendono posti “più belli” aderiscono all’immagine di tipi ambiziosi e intraprendenti che alle cose preferiscono l’esperienza. Inoltre, la convergenza tra stanchezza provocata dalla pandemia, redditi intermittenti e il summenzionato atteggiamento da “al diavolo” quando si tratta di acquistare piccoli lussi crea l’ambiente perfetto per la soddisfazione a basso costo. A prescindere da quanto i viaggiatori siano consapevoli delle tattiche di marketing sull’upgrade dei posti, molti pensano ancora che valga la pena spendere di più. E la percezione è la realtà. Le compagnie aeree, a quanto pare, hanno capito come capitalizzare tutto questo.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul sito del mensile statunitense The Atlantic.
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