Separati dal virus
Un’ombra le attraversa il viso mentre osserva la foto sul tavolo. “Eccoci, siamo noi due”, dice. Lui è Nasim, sorriso solare e occhiali da sole. Lei è Florence, capelli castani e testa appoggiata sulle ginocchia. Hanno 24 anni e tutta la spensieratezza delle coppie giovani. Si sono conosciuti in Texas, tre anni fa, durante l’anno sabbatico di Florence, oggi laureata in economia e commercio a Rennes.
Florence avrebbe dovuto essere insieme a Nasim già da tre mesi. Il visto che le avrebbe permesso di svolgere un tirocinio in un’azienda texana è arrivato a metà marzo, proprio quando gli Stati Uniti chiudevano le frontiere alle persone provenienti dallo spazio Schengen e la Francia sospendeva attività e spostamenti per combattere la pandemia. “È successo pochi giorni dopo”, ricorda Florence con rammarico. “Non abbiamo avuto fortuna”. Da quel momento Florence aspetta la fine delle limitazioni a casa di sua sorella, vicino Parigi. L’azienda texana ha accettato di rinviare l’inizio del suo tirocinio, ma per la giovane coppia la separazione è stata dura. “Finora stiamo reggendo. Ma quanto tempo dovremo aspettare?”.
Laurence e Philippe possiedono una libreria-drogheria in North Carolina. Laurence era in Francia per visitare la sua famiglia quando le frontiere sono state improvvisamente chiuse. Non è ancora riuscita a tornare negli Stati Uniti. “Un mese, due mesi, tre mesi. Non pensavamo che sarebbe durato così tanto. Andare avanti è difficile, soprattutto perché non abbiamo alcuna prospettiva e poche informazioni”, ammette Laurence, in possesso di un visto per agli investitori. “Ci sono giorni in cui rischio di crollare, e altri in cui vengo presa dalla collera”.
Confusione enorme
Quante sono le persone che si trovano nelle condizioni di Florence, Nasim, Laurence e Philippe? Quante coppie, famiglie e amici subiscono una separazione dolorosa a causa delle restrizioni sugli spostamenti introdotte in molti paesi per contrastare la pandemia? In Europa sono centinaia, forse migliaia. “Difficile quantificarle con precisione, ma ogni giorno ricevo testimonianze di persone che vivono situazioni strazianti”, racconta l’eurodeputato liberaldemocratico tedesco Moritz Körner, molto attivo su questo tema all’interno della Commissione europea.
“Molti francesi sono disorientati, c’è grande confusione in merito a cosa è permesso e cosa non lo è”, aggiunge Géraldine Tissot Brown, avvocato dello studio legale californiano Laurent C. Vonderweidt, esperto in questioni legate all’immigrazione. La confusione, in effetti, è enorme. Il primo luglio l’Unione europea ha riaperto le frontiere a una quindicina di paesi, ma i confini restano chiusi per i cittadini di altre nazioni, fra cui gli Stati Uniti.
L’ingresso negli Stati Uniti è vietato a tutte le persone che hanno visitato lo spazio Schengen negli ultimi quattordici giorni, fatta eccezione per i cittadini statunitensi, per i possessori di green card e per le persone inserite in una lista speciale stilata da Washington (genitori o figli di un cittadino statunitense, diplomatici, ricercatori che lavorano sul covid-19).
A tutto questo bisogna aggiungere le decisioni prese da Donald Trump, che il 22 aprile e il 22 giugno ha scelto di negare l’accesso al paese ai possessori di una serie di visti, tra cui alcuni lavorativi. “Ma anche in questo caso la situazione è complessa. Quelli che dispongono già di visti validi H1B, H2B, J1 o L1 possono entrare negli Stati Uniti, ma non se sono stati all’interno dello spazio Schengen negli ultimi quattordici giorni”, spiega Tissot Brown. “Quelli che si trovano già negli Stati Uniti e hanno il visto in scadenza in molti casi possono chiedere un’estensione”.
Una giungla normativa
Non riuscite a raccapezzarvi? Non preoccupatevi, è normale. A complicare la situazione c’è il fatto che le regole cambiano continuamente e sono diverse in base al continente e al paese d’origine o di residenza, ma anche a seconda dello status familiare. Per i conviventi tutto è più difficile. “Naturalmente comprendiamo l’importanza di queste misure per frenare l’epidemia”, sottolinea Eric, da Filadelfia, separato da Laura che è rimasta a Rio de Janeiro. “Ma queste regole diventano insopportabili perché si applicano ad alcuni paesi e non ad altri, spesso senza una logica, e soprattutto perché sembrano avere motivazioni politiche”.
Per capirci qualcosa in questa giungla normativa, i più sventurati pubblicano le loro storie su Twitter con l’hashtag #loveisnottourism. Altri hanno creato gruppi su Facebook con nomi come “Coppie separate dalle restrizioni sugli spostamenti” o “Aggiornamento sulle restrizioni”, per scambiarsi le ultime informazioni disponibili ma anche consigli su come aggirare i vincoli. Molti escono dallo spazio Schengen per quattordici giorni – fermandosi per esempio in Turchia, Messico o Croazia – nella speranza di poter entrare negli Stati Uniti.
Nonostante i costi elevati, la libraia Laurence vorrebbe partire per Zagabria, in Croazia, e fermarsi lì per due settimane, per poi raggiungere Philippe. “Consigliamo grande prudenza rispetto a questa strategia. La pandemia continua a evolversi. C’è il rischio di restare bloccati in un paese straniero”, sottolinea Roland Lescure, deputato di La république en marche (Lrem) eletto dai francesi che vivono in Nordamerica. Da marzo un componente della squadra di Lescure è incaricato di rispondere alle persone che si trovano nella situazione di Laurence e Florence. È un lavoro a tempo pieno. “Sono molto angosciati, facciamo il possibile per assisterli”.
Attraversare l’Atlantico
All’inizio delle restrizioni in Francia Frédérique, 53 anni, non pensava che il suo caso fosse diverso da quello dei suoi compatrioti. “Fino all’11 maggio tutti i francesi erano nella stessa barca. Vivevamo un’esistenza sospesa”, racconta. Frédérique si era trasferita da qualche mese a Boston insieme al marito e al figlio. Da poco si erano spostati in una grande casa. Quando le frontiere si sono chiuse Frédérique si trovava in Francia per inviare gli ultimi pacchi negli Stati Uniti. “Ora siamo lontani più di settemila chilometri e non abbiamo alcuna speranza di rivederci in tempi brevi. Riuscite a immaginarlo?”.
Dall’11 maggio, data in cui sono state allentate le restrizioni, Frédérique si sente ancora più sola, incompresa. “Gli altri hanno ripreso la loro vita normale, ma non io”, racconta. Frédérique soffre d’insonnia e di crisi di panico. “Ho paura di non rivedere più mio marito e mio figlio”. Le discussioni sui gruppi Facebook l’hanno aiutata ad andare avanti, almeno per un po’. Ma ora si prepara a prendere un aereo per il Messico. “È troppo dura, non ce la faccio più. Se sarà necessario attraverserò l’Atlantico a nuoto”.
La paura, la collera. Per le persone che vivono una separazione la cosa più difficile da sopportare è l’incertezza: non sanno quando potranno tornare a casa e non sanno cosa troveranno quanto le frontiere saranno riaperte, se avranno ancora un lavoro e se l’attività commerciale che hanno lasciato sarà ancora praticabile. Nessuno può fare progetti. “Il mio datore di lavoro finirà per licenziarmi se non tornerò in tempi brevi”, racconta Nicolas, impiegato nel settore agroalimentare vicino a Chicago e bloccato a Lione da marzo. Nicolas non sopporta l’idea di dipendere dalle decisioni dell’imprevedibile Donald Trump. “Ha chiuso il paese ai possessori di alcuni visti di lavoro, per proteggere gli impieghi degli statunitensi. Il covid-19 non c’entra niente. E se domani ci cacciasse tutti?”.
Poi ci sono gli obblighi amministrativi e finanziari, più pesanti ogni mese che passa. “Continuiamo a pagare l’affitto e le bollette a Boston. Abbiamo dovuto saldare in anticipo la retta della scuola materna senza sapere se riusciremo a tornare prima dell’inizio delle lezioni”, racconta Maria, madre di un bambino di quattro anni. Quando sono state imposte le restrizioni, Maria si trovava in Francia insieme al marito per rinnovare i visti (L1 e L2, per i dipendenti inviati da una multinazionale negli Stati Uniti e per i loro congiunti). La coppia non è riuscita a ottenere i documenti prima della chiusura delle ambasciate, ed è ancora in attesa. Per settimane hanno vissuto in un albergo di Grenoble, prima di decidersi ad affittare un piccolo appartamento e prendere in prestito alcuni oggetti dagli amici per adattarsi alla nuova sistemazione. “Come facciamo a spiegare la situazione a nostro figlio?”, si domanda Maria. “In questo momento non mi sento una buona madre. Sono scombussolata”.
Anche Nicolas è sfinito. Per salvare il posto di lavoro partecipa alle videoconferenze con i clienti a qualsiasi ora. “A causa della differenza di fuso orario sono costretto a farle la sera. Ma tanto non riesco comunque a dormire per lo stress”.
Laurence è arrivata alla decima sistemazione diversa. “Da marzo in poi ho dormito a casa di amici, dei miei due figli, poi di altri amici. Ho paura a muovermi, non mi sento a casa”, ammette. Malessere, scomodità. Laurence ha la sensazione di “essere un ostaggio”. Per occupare le giornate scrive ai consolati e alle ambasciate. “Ho perfino inviato un’email alla Casa Bianca”.
Progetti e sogni in pausa
Le risposte, quando arrivano, sono tutte uguali: cercano di essere rassicuranti e sottolineano che si tratta di una situazione temporanea, consigliano di pazientare e di non fidarsi delle voci che girano sui social network. “Ma le cose stanno cominciando a muoversi. La Commissione europea è consapevole del problema. Alcuni paesi, come la Danimarca, hanno introdotto eccezioni per permettere alle coppie non sposate di ricongiungersi”, spiega Körner.
Nell’attesa molti sono costretti a rimettere in discussione le proprie scelte di vita. A gennaio, dopo quattro anni trascorsi a San Francisco, Antoine è tornato a Parigi per stare vicino ai suoi genitori. Neela, la sua compagna indiana, ingegnera a Palo Alto, avrebbe dovuto raggiungerlo in estate. “Ma ora è titubante”, racconta Antoine. Neela ha paura che partendo non possa più rientrare negli Stati Uniti. “Le restrizioni distruggeranno il nostro rapporto. Temo che la coppia non possa sopravvivere a una separazione prolungata”, ammette Antoine.
Battina è tornata in Francia a marzo per assistere al parto di sua figlia. Suo marito, ingegnere di una multinazionale a Pasadena, non ha potuto raggiungerla in tempo. “Per il momento non posso tornare in California. Quest’estate dovevamo visitare Yellowstone, esplorare i grandi parchi. È il mio sogno americano. Ma ora è tutto in aria”, racconta. La coppia non sa ancora cosa farà l’uomo quando scadrà il suo contratto, tra qualche mese. Restare? Partire?
Per tutti c’è la preoccupante prospettiva di un mondo in cui il covid-19 sarà sempre presente e in cui i paesi potrebbero improvvisamente chiudere le frontiere agli stranieri in caso di un’impennata dei contagi. Una prospettiva che stravolge le vite e mette in pausa i progetti di espatrio e i sogni di cambiamento. “Per la mia generazione, di cui fanno parte le persone nate dopo la creazione dello spazio Schengen, scoprire la realtà delle frontiere e l’impossibilità di viaggiare è traumatico”, ammette Florence. I giovani come lei sentono di assistere a un ribaltamento del mondo. “È un po’ come quello che hanno vissuto i nostri genitori nel 1989, con la caduta del muro di Berlino”, riassume Alex, costretto a rinunciare al tirocinio che avrebbe dovuto svolgere in uno studio legale newyorchese. “Loro hanno assistito al trionfo della libertà. Noi assistiamo al ritorno dei muri”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano francese Le Monde.