I nuovissimi pannelli solari su un tetto di San Giovanni a Teduccio, nella periferia orientale di Napoli, sono un primo esempio pratico di “transizione energetica”.
Il “tetto solare” si trova nel quartiere Villa, su una palazzina dal profilo ottocentesco che ospita un’istituzione educativa, tra le case popolari costruite negli anni sessanta del novecento, i casermoni più recenti e i vecchi stabilimenti dismessi che impediscono di vedere il mare. È un piccolo impianto, basterà a produrre l’energia elettrica sufficiente a una quarantina di famiglie. La novità è che quelle famiglie si sono associate per diventare un collettivo di cittadini che producono energia da fonte rinnovabile per il proprio consumo. In termini tecnici, quella di San Giovanni a Teduccio è una delle prime comunità energetiche realizzate in Italia.
L’espressione comunità energetica è ancora poco nota. In Italia è entrata nel linguaggio ufficiale solo nel dicembre 2020, quando il parlamento ha approvato un emendamento al decreto cosiddetto Milleproroghe che riconosce le associazioni di produttori-consumatori di energia rinnovabile, come previsto da una direttiva europea del dicembre 2018: singoli cittadini, enti locali o piccole aziende e cooperative possono associarsi e diventare comproprietari di impianti di energia rinnovabile “di vicinato” (fino a 200 chilowatt di potenza), quindi scambiarsi energia per autoconsumo, ma anche con la possibilità di mettere in rete l’energia e ricevere un incentivo dal Gestore dei servizi energetici (Gse), l’azienda pubblica che promuove le rinnovabili. “È un primo riconoscimento giuridico, in attesa di una legge più compiuta che recepisca la direttiva europea”, spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, che dirige la campagna per le energie rinnovabili e si è adoperato per questa sperimentazione normativa.
Cambiare insieme
L’idea di produrre energia in tanti piccoli impianti decentrati sul territorio, invece che in grandi centrali, non è nuova. Ora si apre la possibilità che questi piccoli impianti siano gestiti in modo collettivo. Esempi di comunità energetica stanno nascendo in tutta Italia (Legambiente ne elencava 32 in un rapporto di giugno 2020, promosse a volte da cooperative di cittadini, a volte da piccoli comuni).
A Napoli la proposta è partita da Legambiente e ha il sostegno della Fondazione con il sud, che finanzia progetti di sviluppo sociale. Il tetto che ospita i pannelli fotovoltaici invece appartiene alla fondazione Famiglia di Maria, ben nota a San Giovanni: il nome ricorda l’origine cattolica, dato che nell’ottocento era un orfanotrofio gestito dalle suore; oggi è un’istituzione educativa laica che collabora con i servizi sociali del comune per il diritto all’istruzione.
“Siamo andati nella periferia di una grande città perché volevamo che fosse un doppio esperimento, ambientale e sociale”, spiega Mariateresa Imparato, presidente regionale di Legambiente in Campania. Non basta trovare soluzioni tecniche per attivare piccoli impianti, dice, bisogna coinvolgere i cittadini e cambiare insieme il modo di consumare energia. “Con la fondazione avevamo già collaborato per progetti di educazione ambientale, quindi è stato naturale pensare a loro”.
Passo dopo passo
Torniamo quindi sul tetto dell’ex orfanotrofio, in un pomeriggio di primavera. “Quando mi hanno proposto di mettere qui l’impianto fotovoltaico ne ho parlato alle famiglie che frequentano l’istituto”, dice Anna Riccardi, presidente della fondazione. Siamo sul terrazzino della palazzina laterale: il tetto centrale ormai è occupato dai pannelli solari, che luccicano nonostante una minaccia di temporale. Giù nel cortile interno un gruppo di bambini sta facendo i compiti con un’educatrice, i banchi sono disposti in cerchio (tutti rigorosamente con mascherina, piccoli e adulti: “Abbiamo alzato l’asticella delle misure di sicurezza, ma non abbiamo mai fermato le attività e non abbiamo avuto neppure un caso di contagio”, dice Riccardi). La fondazione accoglie ogni giorno un centinaio di ragazzi a cui offre mensa, doposcuola e varie attività formative; altri progetti sono rivolti alle famiglie.
Tra i progetti di educazione ambientale, la presidente cita attività sociali come ripulire la spiaggia di San Giovanni a Teduccio, piccolo lembo di costa rimasto accessibile tra la ferrovia e gli stabilimenti dismessi. O recuperare l’area pubblica abbandonata proprio accanto alla fondazione, invasa da erbacce e spazzatura. E poi i laboratori con i bambini, le gite ai centri di Legambiente a Paestum o sul Vesuvio.
Produrre energia elettrica però è un’altra cosa. “Mariateresa Imparato è venuta qui a spiegare il progetto dell’impianto solare, e l’idea è piaciuta”, continua Riccardi.
Il primo passo è stato selezionare le persone disponibili a partecipare. “Alcune chiedevano: ‘Ci dobbiamo fidare, non sarà un imbroglio’?”, ricorda Assunta Formicola, che tutti chiamano Susetta, madre di un bambino di otto anni che sta facendo i compiti nel cortile: è stata soprattutto lei a darsi da fare per raccogliere le adesioni. “Rispondevo: ‘Chi ha fatto la proposta è la presidente, ci possiamo fidare’. Per me le spiegazioni erano chiare. Poi la voce si è sparsa”.
La gestazione è stata complicata. Possono formare una comunità di produttori-consumatori le utenze collegate alla stessa “cabina secondaria” della rete elettrica, e per sapere a quale cabina è collegato il proprio contatore è stato necessario fare una richiesta all’Enel. Succede che abitazioni vicine dipendano da cabine diverse: così, per esempio, Assunta Formicola non ha potuto entrare nell’associazione che ha contribuito a formare. Inoltre, non possono far parte di una comunità energetica le associazioni del terzo settore: per ora, la fondazione Famiglia di Maria non potrà consumare l’energia prodotta sul suo tetto.
Infine è nata la Comunità energetica solidale di San Giovanni a Teduccio, formalizzata davanti a un notaio. I soci fondatori sono le prime tre famiglie di utenti, insieme a Mariateresa Imparato e Anna Riccardi (a titolo individuale anche se rappresentano Legambiente e la fondazione). L’associazione si è allargata via via che sono entrati nuovi soci; oggi include una ventina di famiglie, che possono diventare quaranta nei prossimi due anni.
“Il passo successivo è stato realizzare l’impianto fotovoltaico”, spiega Imparato. È composto da 166 pannelli, per una potenza complessiva di 53 chilowatt. L’impianto è realizzato con componenti di maggiore qualità e tecnologia più avanzata, ed è garantito per 25 anni. Potrà produrre 60mila chilowattora in un anno. Un sistema di accumulo permette d’immagazzinare l’energia e mettere in rete quella in più; il ricavato sarà redistribuito a fine anno ai soci. Secondo le previsioni, ognuna delle famiglie associate riceverà tra duecento e trecento euro.
Per le famiglie c’è subito un risparmio sulla bolletta, riassume Assunta Formicola, “poi c’è il contributo che arriva a fine anno”. Ma non c’è solo questo, aggiunge: sarà energia pulita, e “a San Giovanni ci vorrebbe proprio un po’ di aria pulita”.
“Così ci togliamo la solita etichetta del quartiere di camorra e degrado: stavolta saremo citati per un’esperienza all’avanguardia, la prima comunità energetica operativa in Italia”, esclama Anna Riccardi. Sul terrazzo ci hanno raggiunto altre signore. Le nuvole tempestose sono passate, si vede di nuovo il Vesuvio. Poco distante c’è un piccolo recinto con un capanno e un cavallo ben curato (ma l’installazione è abusiva). L’area verde ripulita dalla fondazione è di nuovo invasa dalla spazzatura, cosa che fa infuriare Riccardi: “I cittadini attivi non devono essere un alibi per le istituzioni che hanno la responsabilità di tenere pulite le aree pubbliche”. Assunta Formicola parla di un quartiere in abbandono: “Qui vicino c’è il parco Troisi, sedotto e abbandonato: sarebbe una bella zona verde, ma viene trascurata. Abbiamo un piccolo lungomare ma è invaso dall’immondizia”.
Non è sempre stato così. San Giovanni a Teduccio era una città industriale e operaia fino a non molto tempo fa. È stata un polo di modernità, sede delle prime officine ferroviarie (fondate nel 1840, era appena stata inaugurata la ferrovia Napoli-Portici) e delle prime centrali elettriche. La Cirio si è insediata nel 1900, seguita dalla Comanducci che produceva la banda stagnata per i barattoli dove finivano i pelati San Marzano coltivati nell’entroterra: una filiera agroindustriale completa. Poi ancora la chimica, la metallurgia, la cantieristica, la farmaceutica. Negli anni settanta, al culmine dell’espansione industriale, a San Giovanni lavoravano circa centomila persone, operai e operaie (la Cirio occupava soprattutto donne).
Cosa resta? “Sono qui da 45 anni e la Cirio è un ricordo di quando ero bambina”, osserva Assunta Formicola. Già: a partire dagli anni ottanta le fabbriche hanno chiuso o sono volate altrove. San Giovanni è lentamente diventato un quartiere sottoproletario. La disoccupazione è alta. Nel vuoto ha trovato spazio l’illegalità.
Ancora un’occhiata dal tetto: a poche centinaia di metri dall’istituto, in direzione est, c’è il cosiddetto Bronx. È soprannominato così il complesso di alloggi costruito dopo il terremoto dell’Irpinia, due casermoni alti dieci piani e lunghi trecento metri, allineati uno dirimpetto all’altro a togliersi la luce e il respiro. Sovrastano le vecchie case popolari del dopoguerra. Hanno qualcosa di ipnotico, che si deve ai murales di Jorit che coprono le pareti laterali: un gigantesco Che Guevara che guarda verso il quartiere Villa, mentre un Maradona dal volto guerriero guarda il parco Troisi, con il suo laghetto rimasto secco da quando non funzionano più le pompe che pescavano dalla falda idrica.
Spazi da recuperare
“Alla deindustrializzazione si sono aggiunte le conseguenze del terremoto dell’Irpinia”, osserva Pietro Nunziante, urbanista, professore all’università Federico II di Napoli: “Risalgono ad allora certi interventi di edilizia popolare”. Si riferisce ai casermoni? “Più che una singola opera, è l’operazione complessiva che è discutibile: costruire grandi falansteri in una zona che si sta deindustrializzando. Certo, c’era l’urgenza di costruire alloggi, ma il risultato è stato creare una concentrazione di disagio sociale e accentuare le disuguaglianze”.
Non che sia scomparso proprio tutto, osserva l’urbanista, San Giovanni a Teduccio conserva qualche presidio industriale. Cita le officine del teatro San Carlo, dove si fabbricano le scene teatrali, che riutilizzano vecchi stabilimenti recuperati. Intanto il porto si espande verso est con il progetto della darsena di levante, una piattaforma di mezzo chilometro con piazzali per movimentare container e depositi di carburante. C’è il progetto di un impianto per stoccare il gas naturale liquido (Gnl), che per la verità sta suscitando opposizioni e proteste: molti chiedono di restituire al quartiere i suoi circa tre chilometri di costa, occupati da stabilimenti ormai vuoti e in disuso.
“Le potenzialità ci sono”, continua Nunziante, “ma finora la città non è stata neppure in grado di recuperare gli spazi delle vecchie industrie”. Con un’eccezione importante: buona parte del terreno dove sorgeva la Cirio oggi è occupato dal nuovo campus dell’università Federico II di Napoli, eleganti edifici di vetro azzurrino e cemento circondati da uno spazio verde aperto al quartiere. È citato a esempio di “buone pratiche”, sottolinea l’urbanista; l’ha realizzato l’università di Napoli con la regione Campania (e con fondi europei), ed è la sola operazione riuscita di riuso del vecchio patrimonio industriale.
Frequentato da duemila studenti e un centinaio di docenti, il campus di San Giovanni a Teduccio include anche la Apple academy, una scuola superiore per programmatori avviata dalla Apple in collaborazione con l’università. Secondo Pietro Nunziante, che insegna qui, “è una delle iniziative più dinamiche della città”: la vecchia manifattura ha lasciato posto alla nuova “industria della conoscenza”. Gli effetti sul quartiere però sono ancora poco visibili. Il campus non ha mensa né residenza interna, scelta deliberata per favorire le attività di ristorazione e ospitalità intorno. Ma è poca cosa, ammette: “La struttura resta un’astronave”.
“C’è chi descrive il quartiere Villa come un quartiere operaio, e chi come una zona di camorra. È entrambe le cose”, dice Anna Riccardi, che si chiede quanti dei suoi bambini entreranno mai in quel campus. Che questo sia un terreno difficile non c’è dubbio. Il foro di proiettile sul portone dell’ex orfanotrofio lo testimonia: il colpo è stato sparato di notte, pochi mesi fa; la pallottola è andata a incastrarsi nella parete dell’atrio d’ingresso, ci hanno disegnato intorno la corolla di un fiore. Qui lo considerano un tentativo di intimidire un presidio di solidarietà e legalità.
Qui molti faticano a pagare la bolletta. La povertà energetica esiste anche in Italia
Del resto, la tensione sta tornando a salire in diverse zone della periferia orientale di Napoli. Nel mese di maggio hanno destato allarme alcune sparatorie, un omicidio per strada e tre bombe esplose in meno di quattro giorni nella vicina Ponticelli. Poi le saracinesche incendiate a San Giovanni a Teduccio, e le operazioni di polizia con decine di arresti legati alla criminalità organizzata. Sembra una guerra, segnala un preoccupato appello firmato da numerose forze sociali, associazioni e istituzioni culturali attive nella parte orientale di Napoli, che hanno costituito un comitato di liberazione dalla camorra (tra queste anche la fondazione Famiglia di Maria).
Anna Riccardi cita spettacoli teatrali e “la festa con le famiglie delle vittime innocenti”, aperta al quartiere, organizzata con l’associazione Libera. E i pranzi di Natale, “in cui s’incontrano persone diverse, dal professore universitario a chi ha problemi in corso con la giustizia”. Di cosa vive il quartiere? “Di reddito di cittadinanza, di poco lavoro formale e di molto lavoro nero e lavoretti, in una zona grigia al limite dell’illegalità. Il problema è che spesso l’economia criminale è l’unico modo per avere un lavoro. L’unica possibilità per non entrarci, o per uscirne, è trovarne uno”.
Il quartiere di Wonderuò
Per questo non basta garantire il doposcuola, “dobbiamo fare squadra con le famiglie”, insiste Riccardi. Le famiglie: ma qui incontro solo madri. E i papà? “A volte li vediamo, ma in effetti è raro”, spiega. Sono al lavoro. Oppure sono in carcere. In generale “sono meno presenti nel percorso educativo dei figli. Sono le madri a occuparsene”.
“L’importante è togliere i bambini dalla strada”, dice Assunta Formicola mentre attraversiamo il salone dove alcuni ragazzi stanno scrivendo una ricerca al computer. Usciamo nel secondo cortile, più grande, dove alcune bambine si allenano al dribbling con il pallone. “Questo è l’unico istituto che fa qualcosa per noi e per i piccoli, in questo quartiere”, continua Formicola. Racconta di Wonderuò, personaggio creato durante un laboratorio per analizzare la violenza sulle donne: una sorta di cartone animato in cui la superdonna è un fumetto e dialoga con le donne reali, “discute se il marito dà una mano nelle faccende domestiche, come reagire se un fidanzato alza le mani”.
Tensioni e violenza domestica sono un problema spesso presente, spiega Formicola. Il punto è reagire, come spiega Wonderuò a una ragazza: “Ti picchia e poi dice che lo devi perdonare, è perché ti ama, ha perso la testa, cose simili? Non ci credere, uno che ti ama non vorrebbe farti male”. Formicola aggiunge: “Wonderuò sono io, siamo noi”.
Ci sono ancora molti limiti legali e normativi, ma speriamo che saranno superati quando la direttiva europea sarà recepita
L’impianto fotovoltaico del quartiere Villa è anche un modo per combattere la povertà energetica, dice Mariateresa Imparato. “Intendo quando le persone, o intere comunità, non riescono ad accedere a servizi essenziali come la luce elettrica. Qui molti faticano a pagare la bolletta. Pensiamo che riguardi solo paesi lontani, ma esiste anche in Italia”.
Questo significa che pagare di tasca propria un impianto solare sarebbe stato improponibile, e infatti le famiglie qui associate non hanno pagato nulla. Quindi bisognava trovare un finanziamento.
Qui entra in scena la Fondazione con il sud, nata dall’alleanza tra fondazioni bancarie ed enti del terzo settore per sostenere lo sviluppo sociale nel meridione. “Il nostro primo obiettivo è la giustizia, combattere le disuguaglianze; la nostra missione è promuovere e rafforzare le comunità sul territorio”, spiega il presidente Carlo Borgomeo. Perciò la fondazione ha messo centomila euro a fondo perduto nel progetto della comunità energetica a San Giovanni a Teduccio. “Se darà risultati positivi, in futuro faremo un bando per promuovere altre comunità di questo tipo”, spiega Borgomeo.
Pannelli solari e batterie d’accumulo sono sempre meno cari, ma hanno comunque un costo. Per sviluppare le comunità di produttori-consumatori d’energia servirà diffondere informazioni su queste nuove opportunità, sviluppare competenze e aiutare l’accesso al credito nei contesti più fragili, “altrimenti la transizione ecologica resta una cosa per ricchi”, osserva Edoardo Zanchini. Il piano nazionale di rilancio e resilienza ha destinato 2,2 miliardi di euro alle comunità energetiche da realizzare nei piccoli comuni: “Bisognerà vedere come saranno utilizzati”, aggiunge Zanchini. “Ci sono ancora molti limiti legali e normativi, ma speriamo che saranno superati quando la direttiva europea sarà recepita”.
In attesa del via libera dell’Enel, la Comunità energetica solidale di San Giovanni a Teduccio ha cominciato a fare opera di “educazione al risparmio energetico”. Sul tetto della fondazione Famiglia di Maria ora si discute di fare le lavatrici di giorno (quando l’impianto fotovoltaico produce di più) per abbassare i consumi. I bambini imparano come funziona l’energia. Anna Riccardi dice che la comunità energetica “coniuga la giustizia sociale con la giustizia ambientale”. E Assunta Formicola spera che arrivi un po’ d’aria pulita.
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