Il distanziamento sociale imposto dal nuovo coronavirus ha avuto un impatto evidente sulle nostre vite digitali. Non è chiaro se questo effetto sarà duraturo, né quando (e se) le nostre vite torneranno “normali”. Non sappiamo nemmeno se quelle stesse vite digitali usciranno fortificate o irrimediabilmente corrose da tutto questo.

Nel frattempo, un po’ alla volta, stiamo scoprendo la fatica digitale. Si tratta di una condizione difficile da riconoscere, che si manifesta talvolta in forme collaterali, ma ugualmente diffusa e in qualche maniera evidente. La vita digitale imposta dagli avvenimenti è faticosa e meno affascinante di quanto avremmo immaginato.

Lo dicono gli insegnanti, alle prese con la tecnologia che li connette ai loro studenti, se ne accorgono i lavoratori in smart working dal soggiorno di casa, lo segnalano gli studiosi che spiegano, per la verità non da ieri, come piccoli ostacoli tecnologici apparentemente innocui – per esempio il ritardo di ricezione del segnale audio/video nelle chat – siano fenomeni che, mentre la semplificano e la rendono possibile, complicano e rendono più stressante la nostra vita di relazione. Quello della nuova era digitale è un processo caotico, in cui euforia e difficoltà si manifestano allo stesso tempo.

La fatica digitale è una delle molte imperfezioni delle nostre esperienze online. Nuove frontiere che abbiamo idealizzato e descritto per molto tempo con benevola attenzione e che ora, mentre la storia improvvisamente le impone, mostrano anche i propri limiti.

L’elefante nella stanza
La tecnologia è da diversi decenni un tema inevitabile: lo era anche prima dall’emergenza coronavirus, ma è stata a lungo un elemento di completamento della nostra vita che molti sceglievano di ignorare. Nel tempo la tecnologia si è fatta ingombrante perché attraverso di essa, dopo l’esplosione di internet, si sono andate applicando nuove forme del dominio politico ed economico. Tuttavia la sua raggiunta centralità non ne ha cancellato i limiti, così come non ne ha potuto disinnescare le ulteriori aspirazioni di potenza. La discussione e le polemiche di questi giorni in Italia intorno alla app per tracciare i contatti dell’epidemia di coronavirus ne sono un buon esempio.

Se il dilemma centrale dei prossimi anni continuerà a oscillare tra il saper controllare la tecnologia e l’esserne invece controllati, forse una simile elaborazione potrà arricchirsi di una nuova consapevolezza. Saranno i momenti di stress come questo del lockdown mondiale ad aiutarci a ridisegnare i confini della nostra infatuazione (o della nostra avversione) verso gli ambienti digitali.

L’elefante nella stanza resta in ogni caso il fatto che la mancanza di presenza fisica, tipica dei contesti digitali, è lontanissima dall’essere risolta. Ed è una forma di riduzione che per ora non siamo in grado di accettare. La fatica digitale ne è solo un aspetto. È nel momento del confronto con il “prima” che la ricchezza della nostra vita di relazione precedente alla quarantena si mostra in tutta la sua evidenza.

Mentre nei prossimi mesi ci attendono nuove forme di fatica analogica, che è il sentimento che ci assale quando osserviamo le ipotesi di vita sociale dopo il coronavirus e il distanziamento sociale (per esempio le immagini dei ristoranti, o delle cabine degli aerei, o delle spiagge attrezzate con nuovi angoscianti diaframmi di sicurezza), sappiamo già che la fatica digitale è destinata a restare. Se la barriera di plexiglass che divide gli amanti in un ristorante di Wuhan o Milano è un presidio forse necessario ma temporaneo, il senso di straniamento e distanza delle interfacce digitali appartiene in maniera nativa a quelle tecnologie.

Non è chiaro se il successo delle piattaforme digitali potrà confermarsi quando altre tecnologie di relazione torneranno disponibili

I sistemi di videoconferenza che dominano le nostre vite familiari e lavorative durante la quarantena (Zoom, una delle piattaforme più utilizzate, nel mese di gennaio era stata scaricata ogni giorno da una media di circa 56mila persone, mentre nella sola giornata del 23 marzo, nonostante le molte polemiche che l’hanno riguardata, ha toccato 2,13 milioni di download) rispondono egregiamente alla logica del “good enough”, l’approccio sociale alle tecnologie che domina in questi tempi di bassa risoluzione digitale.

Benché tali piattaforme non abbiano al momento alternative e mostrino il proprio fascino tecnologico a una platea di utenti fino a ieri inimmaginabile, non è chiaro se un simile successo potrà confermarsi quando altre tecnologie di relazione torneranno disponibili. Tecnologie secolari, come una panchina al parco, una partita a tennis, una sera d’estate in un cinema all’aperto.

Per queste ragioni non saprei rispondere alla domanda che è rimasta qui sospesa fino a ora; una domanda che sento ripetere spesso in questi giorni, e che incuriosisce e affascina anche me: cioè se davvero la quarantena per il coronavirus sarà un fattore decisivo per ridurre le nostre diffidenze verso le tecnologie.

Non so se i milioni di persone che oggi si arrabattano su piattaforme di videoconferenza come Meet, Zoom o Skype, che ne stanno scoprendo trucchi e difetti, domani continueranno a usarle per un aperitivo con gli amici o per il lavoro, per una lezione online o per qualsiasi altra cosa, nel momento in cui le vecchie alternative torneranno disponibili.

Nei paesi come l’Italia, che mostrano da sempre un basso tasso di adozione delle nuove tecnologie (molte delle quali nel frattempo non sono più per nulla nuove) esiste una dominante culturale difficile da contrastare. Quando alla fine della prima decade degli anni duemila si osservò la più inattesa e convinta adozione di massa di una piattaforma digitale in Italia e gli utenti di Facebook passarono dal milione del settembre 2008 ai dieci milioni del 2009 ai venti milioni del 2011, molti analisti immaginarono che questo sarebbe stato il primo grande passo verso una nazione nuova. Si pensava che l’utilizzo del social network avrebbe fatto da apripista alla vita digitale dei cittadini i quali, nel frattempo, ne avrebbero potuto scoprire le molte opportunità.

Dieci anni dopo, il Digital economy and society index (Desi), un indice che misura i livelli complessivi di digitalizzazione dei paesi dell’Unione europea, mette l’Italia al 24º posto tra i 28 stati dell’Unione. L’innamoramento per Facebook, insomma, non ha modificato lo scenario e la dominante culturale dell’Italia allergica al digitale è rimasta sostanzialmente intatta.

È quindi possibile che la conversione digitale obbligatoria che le nostre vite, quelle degli insegnanti e degli studenti, quelle dei lavoratori e dei pensionati, stanno subendo in queste settimane, non influirà in maniera sostanziale sul nostro futuro. È altrettanto possibile che il digitale, vissuto oggi come vera e propria àncora di salvezza, crei una sorta di imprinting positivo del quale osserveremo gli effetti.

In entrambi i casi, paradossalmente, i limiti culturali che oggi le tecnologie di relazione sociale mostrano con grande evidenza potranno essere considerati, parafrasando un vecchio detto del Jargon File caro agli informatici del secolo scorso, non un difetto ma un pregio (“It’s not a bug, it’s a feature”).

La fatica digitale sarà un pregio, a patto che un simile bug orienti il percorso della nostra vita di esseri connessi verso l’unica traiettoria ragionevole fra le poche possibili. Quella secondo cui vita analogica e vita digitale sappiano trasformarsi in un unicum inestricabile.

Una sola vita, insomma, in grado di contenere la nostra umanità e il nostro destino di esseri tecnologici. Un unico grande cervello che dovrà “rassegnarsi alla pace”, come scrisse profeticamente Franco Carlini tanti anni fa.

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