Si chiama Romeo, ha 16 anni e abita tre piani sopra il mio appartamento, nel 20° arrondissement di Parigi. Dall’inizio del confinamento l’ho visto costruirsi un tavolo da ping-pong con un’asse polverosa recuperata nel suo garage, dare lezioni di ginnastica a sua madre – flessioni e addominali – e la sera tardi camminare avanti e indietro nel cortile del palazzo per raccontare la giornata alla sua ragazza, andata in campagna. Poi risale al quarto piano e il giorno dopo ricomincia.

Volevo sapere cosa significa essere un adolescente rinchiuso tra quattro mura con i genitori, così ho cominciato da lui. Ci parliamo nel cortile, a distanza regolamentare. È seduto al sole, in pantaloncini e infradito.

“Da noi non ci sono porte. Sono cinque anni che i miei genitori avrebbero dovuto finire i lavori, così non c’è alcuna intimità. Quando sei al telefono, ti sentono tutti. È per questo che la sera, quando chiamo la mia ragazza, scendo”.

“Siete insieme da parecchio?”

“Proprio oggi fa un anno e dieci mesi”.

Contentezza iniziale
Ha sentito parlare del coronavirus alla radio – “i miei genitori hanno tutto il giorno la radio accesa su France Inter” – e su Snapchat – “a quanto pare un tipo in Cina avrebbe mangiato un pipistrello”. Quando le scuole hanno chiuso per l’epidemia, era contentissimo. “Il fine settimana successivo, lo ammetto, ho fatto parte di quelli che ne hanno approfittato a fondo. Il tempo era bellissimo e sono uscito con gli amici. Il confinamento non l’ho proprio visto arrivare”.

Poi però si è reso conto della situazione. L’unico computer di casa, un fisso, è nella camera che condivide con suo fratello di 14 anni. Sua madre, urbanista presso il dipartimento della Seine-Saint-Denis, ha dovuto cominciare a lavorare in smart working, così tutti i giorni alle 9 è in “video riunione” davanti allo schermo, in mezzo ai figli che di solito a quell’ora stanno ancora dormendo.

“Non mi posso lamentare, i miei non rompono troppo, andiamo d’accordo. Mio padre strilla più spesso, spesso lo senti brontolare ma non è cattivo”. Romeo sembra ormai piuttosto fatalista. “Mah, non succede nulla, non so come dire, non sono né contento né triste. Ma non mi posso lamentare, ho degli amici che se la passano molto peggio di me. Mi dicono ‘i miei rompono le palle, siamo l’uno sull’altro’. Io sono quello che sta meglio”.

Una professoressa osserva una costante tra i suoi studenti: la pandemia non li sorprende

Al piano terra c’è Tim, 12 anni, prima media, ancora timido. Se c’è suo padre nei dintorni è disposto a parlarmi. Tim è un confinato modello. Non è uscito neanche una volta di casa e anche per passare un quarto d’ora in cortile bisogna obbligarlo. “Non mi piace mettere la mascherina, così non esco. E poi non ne sento il bisogno”. Tim passa tutto il tempo a giocare a Fortnite con gli amici di classe, per divertirsi, per continuare a parlare. Ma può giocarci al massimo tre ore al giorno. Il resto del tempo gironzola per l’appartamento.

“Ho anche festeggiato il compleanno di un amico su Houseparty“.

“Ti mancano I tuoi amici?”.

“Sì un po’. Mi manca per esempio la ricreazione”.

Riflette un momento e poi aggiunge: “Ma potrei farne a meno”.

A 12 e a 17 anni non si hanno certo le stesse esigenze. Ma Elodie Roy, professoressa d’arte in una scuola media della periferia parigina, osserva una costante tra i suoi studenti: la pandemia non li sorprende. “Ormai è da parecchio che dicono: ‘In ogni modo siamo fregati, non faremo figli, l’umanità è destinata al fallimento’”. Quando la professoressa gli ha chiesto di immaginare una cartolina, ha ricevuto dei paesaggi apocalittici. “Sono fatalisti, credono fermamente in una terza guerra mondiale”.

Marco, 16 anni, sintetizza tutto questo in una frase: “Con il riscaldamento globale una cosa è certa: mangeremo cibi caldi!”. Studente in un liceo parigino per giovani con capacità precoci, Marco ha avuto inizialmente paura della chiusura della scuola. E se i corsi online non avessero funzionato? “Ma su questo punto mi sono tranquillizzato quasi subito. È stata soprattutto l’atmosfera, questo ambiente ansiogeno, che mi ha fatto paura. La gente con la mascherina nei supermercati, i carrelli strapieni, tutto questo mi ha impressionato, non stavo bene”.

I genitori di Marco sono benestanti, abitano in uno spazioso appartamento parigino che dà su un cortile abbastanza grande per sgranchirsi le gambe. “Non mi posso lamentare, ma ho un vicino di 75 anni, e io avevo paura perché la gente lasciava giocare i figli davanti alla sua porta. Mi stressava”.

Sale la depressione
Sua sorella Marie, 17 anni, è in quinta liceo e fa parte di quei parigini che sono andati via dalla capitale per passare il periodo di isolamento in campagna. Con il suo ragazzo cerca di tenere viva la fiamma a distanza. “Prima uscivo con il suo migliore amico, ma poi con lui è stato il colpo di fulmine, anche se l’espressione è ridicola. Diciamo che per ora va tutto bene, anzi molto bene”. Al telefono si percepisce il suo sorriso.

Prima di partire Marie ha lasciato al suo ragazzo dei libri e per conservare l’illusione di vivere qualcosa insieme, la sera guardano online lo stesso film nello stesso momento. “Altrimenti è una noia! Le nostre vite non sono certo molto emozionanti, dopo un po’ il solito ‘ciao, come stai?’ comincia a stancare”. Lui è confinato in un appartamento. “Con i suoi genitori non è facile, mangiano spesso insieme. Sua madre ha la mania della pulizia e con il covid la situazione è diventata patologica, ormai mette la candeggina ovunque, anche nel detersivo per i piatti. Il risultato è che adesso la casa puzza di disinfettante”.

San Diego, California, 8 aprile 2020. (Sandy Huffaker, Redux/Contrasto)

Chloé, al suo primo anno in un liceo del Val-de-Marne, dice che il confinamento le ha fatto scoprire chi è suo padre: “È insopportabile. Non ce la faccio più. Me lo sento sempre alle spalle a chiedermi cosa faccio, a controllare se ho lavato bene questo o quello. Di fatto è come avere un coinquilino rompiscatole”. Chloé va a letto molto tardi, si sveglia nel pomeriggio e sta lentamente scivolando in una forma di depressione: “Ne ho parlato ai miei amici e tutti stanno come me. Un amico mi ha detto di aver pianto due volte dall’inizio del confinamento. Sono i nervi a cedere e il fatto di rendersi conto che abbiamo una sola adolescenza. È un momento della tua vita che non dura a lungo e non puoi neanche approfittarne, è frustrante”.

“E tu hai avuto una crisi?“.

“Ieri quando mi sono svegliata. Ho visto Jean-Michel Blanquer (il ministro dell’istruzione francese) in televisione e ho pianto”.

“A causa dell’esame di maturità?“.

“Sì, siamo la generazione trascurata. Quest’anno avremmo dovuto avere la riforma e invece no, avremo solo uno scrutinio! Eppure al nostro liceo abbiamo protestato”.

Per calmarsi Chloé ha cominciato una cura del sonno.

Morire di noia
A 700 chilometri di distanza, Omar, 13 anni, vive il confinamento insieme ad altre sette persone nel suo appartamento di Tolosa. “Non ho paura di prendermi il virus, ma ho paura per mia nonna che vive con noi. Ha circa ottant’anni”. Quello che gli manca di più sono i momenti ai quali non pensava mai, come camminare la mattina con gli amici andando a scuola. “Non so come spiegarlo, ma a causa del coronavirus sono più teso. Di solito quando le mie sorelle mi giocano accanto non mi dà fastidio, adesso invece mi arrabbio e grido”.

Suo padre, operaio, è stato messo in cassa integrazione, sua madre non lavora. “Sono preoccupati”, dice Omar, “ma cercano di non darlo a vedere”. Il suo amico Iliesse, anche lui 13 anni, abita in un palazzo poco lontano. Su WhatsApp manda un messaggio vocale: “Anche il mio cane non ne può più, ieri mi ha morso!”.

Iliesse ha scoperto l’esistenza del virus su internet in gennaio, in un articolo poco attendibile: “Diceva che la Cina non era contenta di un discorso di Trump sulla terza guerra mondiale e così aveva creato un gas chimico che sarebbe scoppiato come una bomba, con il coronavirus all’interno. Non dico però che questa sia la verità”.

Da allora Iliesse ha l’impressione di morire di noia. “Di solito il sabato mi svegliavo e facevo subito colazione – adesso invece non mangio nulla – poi andavo al parco, giocavo a pallone o facevo un giro in bici, tornavo a casa, mi facevo una doccia e verso le otto andavo da mia nonna. Talvolta con mia madre uscivamo per fare qualcosa fuori dall’ordinario, tipo andare a Trampoline Park”.

“Adesso invece sono completamente sfasato, mi alzo alle quattro del pomeriggio. Tutta la notte parlo con gli amici al telefono. Non sono stanco, non so neanche io perché”.

“E oggi che cosa hai fatto?”.

“Prima che mi chiamasse, stavo giocando sulla playstation. È l’unica cosa che faccio la mattina”.

Eppure all’inizio ha cercato di studiare. “Ma i professori non si mettono d’accordo tra loro, ci bombardano di compiti come se avessimo solo questo da fare. Ho studiato storia perché è la mia materia principale e francese perché la professoressa ha chiamato mio padre: ‘Buongiorno, suo figlio non fa i suoi compiti, deve fare una foto e mandarmela’. Alla fine mi ha rotto le scatole e ho scritto solo due paragrafi”.

Corpo e spirito in letargo
Anche Chaïma, al terzo anno di liceo commerciale a Oyonnax, nel dipartimento dell’Ain, ha adottato un ritmo parallelo: Snapchat, Instagram, La casa di carta. Raramente Chaïma è addormentata quando suona la sveglia di sua madre, che lavora in una fabbrica dove si produce materiale medico, in particolare siringhe. “E in questo momento sta lavorando tantissimo per gli ospedali”. Quando rientra, passa mezz’ora nel bagno a lavarsi le mani.

Ogni sera rivedendo le sue cinque figlie, si chiede se può abbracciarle e se non rischia di contaminarle. “Mio padre è tutto il contrario, per lui il confinamento è una schifezza ma se ne frega. Non si fa problemi ad andare in giro per il quartiere. Francamente è meglio così, perché altrimenti a casa sarebbe la guerra, rimanere tutta una giornata con lui è impossibile. Sta sempre a rimproverare, così faccio di tutto per spingerlo a uscire”.

La cosa più complicata non è superare l’angoscia ma gestire l’incertezza

In generale queste ragazze e questi ragazzi rispettano l’isolamento. Però dicono tutti, indipendentemente dalle dimensioni dell’appartamento e dal lavoro dei genitori, che la cosa più complicata non è superare l’angoscia ma gestire l’incertezza. Quando li lasceranno uscire? Tra due settimane o due mesi?

“La perdita di interesse è direttamente legata alla durata del confinamento: si è incapaci di pensare a un progetto, qualunque esso sia, finché non si può vedere una via di uscita dalla crisi”, spiega Maria Touati-Pellegrin, pediatra e psichiatra all’ospedale Necker di Parigi. “Il corpo e la mente si mettono in letargo”. Per rispondere alla sofferenza psichica degli adolescenti, Touati-Pellegrin ha instaurato una linea di consultazione telefonica di emergenza, e riceve tra le 20 e le 30 chiamate al giorno. Alcuni adolescenti hanno smesso di mangiare, altri hanno rotto tutto nel loro appartamento.

Bakary ha 14 anni, è un buon calciatore, un difensore robusto. Si allenava tutte le sere ed è proprio durante l’allenamento che ha saputo del confinamento. “Un ragazzo stava guardando il discorso di Macron sul telefono e ce l’ha detto. Da allora non sono più uscito di casa”. Dribbla le sorelline con un pallone di gommapiuma nel corridoio di casa. Quando rovescia una lampada o il gioco diventa troppo rumoroso, accetta di fare una partita a Scarabeo con i genitori. “Va tutto bene, la sola cosa che mi preoccupa sono i miei nonni in Senegal. Li ho sentiti al telefono, per ora stanno bene, ci sono solo due morti ogni 200 casi”.

Un nodo allo stomaco
Anche Farah, 13 anni, ha gli occhi rivolti altrove. I suoi nonni vivono a Tangeri, in Marocco. Per ora lei, arrivata dalla Spagna solo tre anni fa e che parla già molto bene il francese, ha solo una cosa che la preoccupa veramente: la media dei suoi voti in matematica. “Abbiamo dovuto fare un compito online e ho avuto un problema tecnico. Bisognava cliccare ‘Conferma’ e invece sulla pagina è uscito fuori ‘Compito terminato’, mentre io avevo risposto solo alla prima domanda. Il professore mi ha detto che il mio compito non sarebbe stato conteggiato nella media finale, ma mi ha messo zero. Avevo una media di 18,5”.

“Mentre adesso?”.

“12,33”.

Alcuni sopportano più o meno bene l’impossibilità di fare sport. Loris, 17 anni, ha la fortuna di vivere in una piccola casa vicino a un bosco nel Giura. La sua vita quotidiana era fatta di corse in montagna e di giri in mountain bike. Com’è possibile adesso ridursi a fare il criceto nel raggio di un chilometro da casa? “Eppure lo faccio lo stesso, prendo il mio certificato ed esco, ma mi sento arrugginito, fiacco. Alla fine mi passa la voglia”.

Gwendal, che ha la stessa età ma che abita dall’altro lato della Francia, in un villaggio bretone delle Côtes-d’Armor, racconta la stessa storia: ginnastica tutti i giorni alle 15, cento burpees e 40 minuti di salto alla corda. “Ieri però non l’ho fatto. Cominciavano a farmi male le articolazioni e mi sono detto che sarebbe stupido farsi male e dover andare in ospedale. E più va avanti e meno ho voglia”.

Sua madre lavora in un supermercato Lidl, in questo momento non lavora per stare con i figli, ma va nel negozio per fare la spesa. Discute con le cassiere che si lamentano dei clienti: “È la loro uscita quotidiana perciò escono per passare il tempo”.

E poi ci sono gli adolescenti che hanno veramente un nodo allo stomaco perché i loro genitori si alzano ogni mattina per affrontare il virus. Lilou è in seconda media a Brie-Comte-Robert, alla periferia di Parigi; vive in un appartamento con sua madre, infermiera nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Melun, e un fratello maggiore, studente infermiere che in questo periodo è andato a lavorare con il Servizi medico d’urgenza (Samu). In altre parole in questo periodo Lilou vive praticamente da sola.

“Mia mamma organizza il servizio di emergenza per permettere ai pazienti di essere ricoverati in rianimazione. E visto che non c’è posto, bisogna creare sempre nuovi posti per accoglierli. Dice che è molto duro e che è stanca. Vorrebbe che tutto questo finisse. Esce di casa alle 7 e torna alle 23, ed è così dall’inizio. La sera si fa la doccia, mangia e va a dormire”.

Lilou ha solo 13 anni ma da tempo è autonoma. Cucina torte di mele, dolcetti con pasta mandorle, verdure al curry, e l’unica volta che ha dovuto fare un certificato per uscire è stato per andare a comprare gli ingredienti per preparare dei sushi. Quando arriva la noia, disegna, guarda dei video su YouTube o un film su Netflix. A volte il fine settimana prova a chiedere qualcosa a sua madre. “Deve rispettare il segreto professionale, ma qualcosa mi racconta lo stesso. I malati che arrivano, quelli che guariscono e quelli che muoiono. A volte la notte si sveglia, questa situazione le crea ansia. Ma quando si alza la mattina, cerca di non pensarci. Non parla e si limita a bere il suo caffè”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è uscito il 17 aprile 2020 sul settimanale francese M le magazine du Monde.

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