Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2017 sul numero 1236 di Internazionale.

La foto è un ritratto in bianco e nero di una ragazza con un viso rotondo e dolce, i capelli raccolti e le lentiggini. Non sorride, ma le linee sotto gli occhi e una ruga d’espressione sulla guancia sinistra rivelano che sta per farlo. I suoi occhi neri fissano l’obiettivo con uno sguardo magnetico, sottolineato dalla matita nera. Questa foto è stata esposta per la prima volta nel 2016 al festival Les rencontres photographiques di Arles, nella mostra On abortion (sull’aborto) della fotografa spagnola Laia Abril, di 31 anni. Il lavoro è la prima parte di un progetto intitolato A history of misogyny e indaga le conseguenze delle limitazioni all’aborto nel mondo.

“Volevo fotografare la crudeltà che subiscono le donne, mostrare che sono vittime di un sistema”, spiega Abril. Sotto la foto la didascalia indica solo un nome, un’età e un paese: “Guadalupe, 26, El Salvador”. Il testo che l’accompagna è in prima persona, ed è scritto con caratteri da macchina da scrivere, come in un rapporto di polizia: “Sono stata violentata a 17 anni e mi sono ritrovata incinta”, si legge. “Qualche mese dopo sono stata condannata a trent’anni di carcere per omicidio. Avevo perso il bambino a causa di una complicazione avuta nella casa dei miei datori di lavoro. La mia padrona non mi aveva fatto tornare a casa ed ero svenuta. Ero al terzo mese di gravidanza. Volevo mio figlio, non so cosa gli sia successo. Non hanno mai restituito il feto alla mia famiglia. Prima di essere graziata ho scontato sette anni e sette mesi di prigione. Il giorno della scarcerazione ero molto felice. È stata una lotta lunga, ma i miei avvocati e la mia famiglia non hanno mai smesso di venire a trovarmi. Oggi ho una figlia e sono contenta di essere mamma”.

Il testo solleva varie questioni. Perché una donna è stata condannata a trent’anni di carcere per aver avuto un aborto spontaneo? Perché è stata graziata sette anni dopo? Perché qualunque storia di misoginia sembra condurre al Salvador? E poi, che tipo di madre è diventata Guadalupe?

Tutte queste domande e la didascalia “Guadalupe, 26, El Salvador” ci hanno condotto davanti alla porta metallica di una strada di San Salvador, la capitale del paese centroamericano. È la sede dell’Agrupación ciudadana por la despenalización del aborto, un’associazione che si batte perché l’interruzione di gravidanza nel Salvador diventi legale.

Arturo Castellanos, che fa parte dell’associazione, ha contattato Guadalupe al telefono per chiederle se avesse voglia di raccontare la sua storia. La donna si è presa qualche giorno per pensarci e poi ha accettato. L’appuntamento è in una piazza di una piccola città. Arturo mette in moto l’auto e accende la radio, c’è una canzone heavy metal a tutto volume.

“Il Salvador è uno dei sei paesi al mondo che vietano l’aborto indipendentemente dal fatto che la gravidanza sia la conseguenza di uno stupro, di un incesto o metta in pericolo la vita della donna”, dice.

È anche il paese con le pene più severe. Per un’interruzione di gravidanza una donna rischia fino a otto anni di carcere e anche di più se, secondo il giudice, ci sono delle circostanze aggravanti. Questa legge rientra nella politica seguita alla fine della guerra civile (1979-1992) dal partito conservatore Alianza republicana nacionalista (Arena) e dalla chiesa cattolica per emarginare il movimento politico di estrema sinistra uscito dalla guerriglia. All’epoca l’arcivescovo Fernando Sáenz Lacalle, dell’Opus dei, paragonò l’aborto ai “campi di sterminio nazisti”. L’Arena sfruttò il momento favorevole e nel 1998 fece approvare questa legge ingiusta. Da allora ripropone la questione in ogni campagna elettorale.

Nel 2013 un caso ha rivelato la rigidità di questa norma. Beatriz, una ragazza di 22 anni incinta e già madre di un bambino di un anno, ha scoperto di soffrire di una malattia autoimmune cronica e che il feto presentava un’anencefalia. Non sarebbe sopravvissuto dopo la nascita. La donna ha chiesto di poter interrompere la gravidanza, ma i preti del paese si sono opposti e la corte suprema le ha negato il diritto all’aborto terapeutico. Alla fine Beatriz è stata sottoposta a un parto cesareo e il neonato non è sopravvissuto.

Ogni volta che il divieto di abortire non tiene conto della salute delle donne, Agrupación ciudadana si rivolge ai mezzi d’informazione per denunciare la legge in vigore e il modo in cui viene applicata. All’estero i giornali sono spesso molto più disposti ad affrontare l’argomento, spiega Arturo, rispetto alle reti tv e ai grandi quotidiani salvadoregni, che sono ancora nelle mani di un’oligarchia legata al passato, quando il paese era guidato dalle famiglie diventate ricche con il commercio del caffè. Anche la strada che percorriamo con Arturo ha un soprannome antico, carretera de oro. Collega il dipartimento di San Salvador a quello di Cuscatlán attraverso un ponte. Negli anni cinquanta la costruzione del ponte era costata così tanto che si diceva fosse d’oro. Oggi quel ponte non esiste più, perché fu fatto saltare durante la guerra civile. La strada costeggia alcune delle zone più pericolose del paese, controllate dalle maras, le gang criminali che hanno dato vita a un altro tipo di conflitto. È meglio non avventurarsi in queste zone di notte né rischiare di fermarsi per un guasto all’auto. “Nessuno ti darebbe una mano”, dice Arturo, “neanche un poliziotto”.

Paraíso de Osorio, il villaggio dove vive Guadalupe, è controllato dalla Mara salvatrucha. Ricevendo degli ospiti a casa sua Guadalupe attirerebbe l’attenzione su di sé, rischiando di mettersi in una situazione pericolosa. Sono le 10.30 di mattina e la donna aspetta nervosamente. “Sono accanto al Banco agricola”, dice al telefono ad Arturo, che la fa salire in macchina. Ci dirigiamo di nuovo verso l’autostrada e ci fermiamo al riparo da sguardi indiscreti in un ristorante lungo la strada, controllato da uomini armati all’ingresso.

Rompere il silenzio
Guadalupe, che oggi ha 27 anni, porta in braccio Britany, una bambina di pochi mesi con i suoi stessi occhi. Guadalupe indossa una maglietta viola, Britany ha in testa un fiocco di stoffa dello stesso colore. Prima di rompere il silenzio e di raccontare la sua storia, la donna aspetta che il cameriere si allontani. È una storia importante, perché è simile a quella di tante altre donne e rivela le conseguenze del rigido divieto di abortire in vigore nel Salvador. Questo divieto comporta prima di ogni altra cosa un problema sociale: la legge colpisce soprattutto le donne povere, quelle che non hanno accesso alla contraccezione (spesso sono le meno istruite), non sono seguite con regolarità da un medico e non hanno i mezzi per andare in una clinica negli Stati Uniti.

Con la sua voce sottile, mangiandosi le parole per timidezza o per abitudine, Guadalupe racconta di essere nata a Santa Cruz Analquito in una famiglia di nove fratelli e sorelle. Lei è la più grande. Tutti lavorano la terra per ricavare un po’ di mais e di fagioli rossi. “A casa non ci sono stati molti momenti felici, perché mio padre ci ha abbandonato quando avevo otto anni”, dice. All’età di 12 anni Guadalupe ha smesso di andare a scuola e ha cominciato a lavorare come domestica in una famiglia: “Facevo le pulizie e mi occupavo di un neonato di tre mesi, mi pagavano pochissimo”.

Sostenitrici di Teodora del Carmen Vásquez, davanti al tribunale Isidro Menendez a San Salvador, 13 dicembre 2017. La donna è stata condannata a trent’anni per avere avuto un aborto spontaneo al nono mese di gravidanza. (Oscar Rivera, Afp)

Poco tempo dopo ha lasciato quella famiglia per un’altra. Il lavoro che svolgeva lì si potrebbe definire, senza esagerare, “schiavitù”. Era di servizio 24 ore su 24 per due dollari al giorno, con rari permessi ogni quindici giorni. A volte non la pagavano. Un giorno il datore di lavoro l’ha violentata. Aveva 17 anni. La voce di Guadalupe comincia a tremare: “Quando mi fanno domande su questo argomento spesso piango. È difficile ripensarci”, dice.

Nel paese con il tasso di aggressioni sessuali più alto dell’America Latina, il divieto di abortire è di fatto la facciata legale di una violenza di genere che riguarda tutta la società. Nel Salvador viene violentata una donna ogni quattro ore e 42 minuti, e tra il 2006 e il 2014 l’istituto di medicina legale ha registrato 10.546 casi di violenza sessuale a danno di minori. È un problema nazionale, in particolare perché le bande criminali usano lo stupro collettivo come rito di affiliazione alla gang e come arma per terrorizzare la popolazione civile.

All’epoca Guadalupe non ha raccontato a nessuno quello che le era capitato, né alla famiglia né agli amici. “Sono rimasta da sola con il mio problema”, dice con un filo di voce. “Il padrone mi aveva minacciato, mi aveva detto che se avessi parlato mi sarei ritrovata in un sacco della spazzatura. Così sono stata zitta”. Alla fine la ragazza è scappata e, grazie a un’amica, ha preso servizio da un poliziotto. Il lavoro era simile. Quando pagavano, le davano ottanta dollari al mese. In quella casa, qualche settimana dopo, sono arrivati i problemi.

Quando ha scoperto di essere incinta dell’uomo che l’aveva violentata, ha deciso di tenere il bambino. O meglio, l’aborto non era una strada praticabile. “Non ho abbastanza soldi per pensare a un’eventualità del genere”, si diceva. Aveva 18 anni e non era mai andata da un medico in vita sua, tantomeno da un ginecologo. Così ha continuato a lavorare. Fino alla notte tra il 7 e l’8 ottobre 2007: nella solitudine della sua camera Guadalupe era piegata in due da dolori molto forti, che andavano dalla spalla al bacino. Da due giorni diceva alla padrona di sentirsi male e chiedeva lo stipendio per poter tornare a casa. “Ma a lei non piaceva pagare e mi faceva sempre aspettare”. A mezzanotte il dolore è diventato insopportabile. Quello che è successo dopo Guadalupe lo sintetizza in una frase, come per tirare corto: “Mi sono stesa sul letto e in quel momento è nato il bambino”.

Era vivo?

“Ha pianto, poi niente”.

E cos’è successo dopo?

“Ero a letto e sono svenuta”.

La mattina dopo, verso le cinque, la padrona di casa l’ha trovata in una pozza di sangue. L’ha chiusa a chiave in camera e solo verso l’una l’ha portata in ospedale.

Fuori dall’aula
Nel 2014 Jocelyn Viterna, ricercatrice statunitense all’università di Harvard, e l’avvocato salvadoregno José Santos Guardado Bautista hanno pubblicato uno studio intitolato “Analisi indipendente sulla sistematica discriminazione di genere nel processo giudiziario nel Salvador”. Esaminando gli articoli di giornale degli ultimi decenni e i processi alle donne accusate di aborto, i ricercatori hanno mostrato come il principio degli antiabortisti, cioè che “l’aborto è un omicidio”, si sia progressivamente radicato nei tribunali e nel parlamento del Salvador. La legge sull’interruzione di gravidanza considera l’embrione una persona giuridica. Quando l’aborto avviene dopo la ventiduesima settimana di gravidanza, la maggior parte dei magistrati lo giudica “omicidio aggravato”. Di conseguenza le donne che hanno avuto un aborto spontaneo o hanno partorito in ospedale un feto morto sono subito sospettate d’infanticidio.

Il 5 luglio 2017 Evelyn Hernández Cruz, una studente di 19 anni, è stata condannata a trent’anni di prigione. Stuprata per diversi mesi da un affiliato di una gang, la ragazza aveva partorito prematuramente in casa, in un piccolo villaggio di campagna. Secondo il giudice, non si è trattato di un aborto spontaneo, quindi il capo d’accusa è stato trasformato in omicidio volontario. Prima di Hernández Cruz, tra il 1999 e il 2011 altre 17 donne sono state condannate dopo aver perso il loro bambino. Nel Salvador sono note come Las 17, anche se in assenza di statistiche ufficiali il numero preciso delle donne processate non è conosciuto, quindi è probabile che siano molte di più.

Lo studio di Viterna e Guardado Bautista mostra anche l’intesa tra il sistema sanitario e la polizia. Ginecologi e personale ospedaliero sono formati dai magistrati per rilevare “tracce di aborto” e in caso devono subito avvertire la polizia. È quello che hanno fatto i medici dell’ospedale di San Bartolo l’8 ottobre 2007, dopo aver fermato l’emorragia interna che minacciava la vita di Guadalupe. La sera stessa, dopo aver requisito il feto, la polizia ha interrogato la donna informandola che era in arresto.

“Sapevo che l’aborto era illegale, ma cosa succede quando tuo figlio muore durante il parto?”, chiede Guadalupe. Se lo domanda ancora oggi. “Ti mandano la polizia? Gli ho spiegato che non avevo fatto nulla, non avevo preso qualcosa per abortire. Mi hanno detto che, se non volevo finire in prigione, dovevo cercarmi un buon avvocato”.

Prima di lasciare l’ospedale i poliziotti hanno ammanettato Guadalupe al suo letto. In tribunale la donna è stata “assistita” da un avvocato d’ufficio che ha insistito perché lei non partecipasse all’udienza in cui venivano presentati gli indizi dell’accusa. Il 12 ottobre 2007, davanti al tribunale di Ilopango, mentre altri decidevano della sua vita, Guadalupe non ha mai preso la parola, neanche per spiegare che voleva tenere il bambino. L’unica testimone ascoltata è stata la sua datrice di lavoro, che ha affermato il contrario. Nel referto dell’autopsia del feto si parla di “morte per causa indeterminata”. Nella motivazione della sentenza il giudice ha ammesso che non c’era “prova formale di reato”, ma la “forza della ragione” l’aveva portato a condannare Carmen Guadalupe Vásquez Aldana: se avesse voluto salvare il figlio, sarebbe dovuta andare in ospedale.

Guadalupe ha passato in prigione 2.689 giorni, cioè più di sette anni. Il carcere femminile di Ilopango è un edificio fatiscente, molto pericoloso e in pessime condizioni igieniche. Le detenute non hanno niente. Secondo Amnesty international, nel 2015 la sovrappopolazione carceraria ha raggiunto il mille per cento. Del suo arrivo in carcere Guadalupe ricorda “tutte quelle donne attaccate alle sbarre”, la “paura” e la disperazione. La cella che ha diviso con decine di altre detenute era un rettangolo di cemento, “una finestra su un lato e una porta di legno”. C’erano un campo di calcio e un cortile esterno dove le detenute facevano attività fisica, “per non impazzire”.

Le avevano promesso che, in caso di buona condotta, sarebbe uscita prima, così Guadalupe ha ripreso gli studi e si è iscritta ad alcuni corsi. Andava in chiesa tutti i giorni, senza pensare che, proprio sotto la pressione dell’onnipotente arcivescovo di San Salvador, nel 1998 era stata votata la legge che l’aveva mandata dietro le sbarre.

“Ho sempre avuto molta fede. Dio mi faceva sognare che sarei tornata a casa”, dice. A Ilopango Guadalupe ha continuato a non parlare della sua storia. Le donne condannate per aborto sono spesso maltrattate e picchiate dalle altre detenute, che le considerano delle infanticide e le chiamano comeniños, mangiatrici di bambini.

“Dicevo che ero lì per furto”, afferma Guadalupe. “Ma qualcuno mi ha visto in tv e così si è saputo. Ho avuto fortuna, non mi hanno fatto nulla. Ma ho visto le altre: donne con il volto tumefatto e la testa piena di colpi. Dicevano che quelle si meritavano la pena di morte”. “Le altre” sono le donne del gruppo Las 17: María Teresa, Teodora, Cristina, Elizabeth, per citarne alcune. Sono diventate amiche di Guadalupe. Un giorno un avvocato, Dennis Muñoz, si è presentato all’entrata della prigione. È stato il primo ad aver difeso le donne condannate per aborto spontaneo o per complicazioni alla nascita. Lo chiamano “l’avvocato degli aborti”, ma lui si considera un femminista: “Nel Salvador c’è una guerra contro le donne povere”, afferma. “Queste donne si sono solo trovate nel posto sbagliato nel momento sbagliato e sono vittime di un sistema giudiziario sospettoso senza ragione”.

Dimenticare
Il 1 aprile 2014 Agrupación ciudadana ha presentato 17 richieste di grazia in nome del gruppo Las 17, affermando che le donne non erano colpevoli di nulla. Anche se la legislazione non era cambiata, la vicenda è stata seguita dai mezzi d’informazione e così Guadalupe è diventata la prima donna della storia del Salvador a essere graziata, dopo che l’assemblea legislativa ha stabilito che non aveva avuto un processo giusto. Era il 17 febbraio 2015. Alle cinque del pomeriggio Guadalupe ha sentito il suo nome uscire dagli altoparlanti della prigione: annunciavano la sua scarcerazione. Né la famiglia né i suoi avvocati erano stati avvisati. Si è ritrovata sola in mezzo alla strada, quando cominciava a fare buio.

“Ero nervosa, l’odore degli autobus mi dava la nausea. Avevo mal di testa. Avevo paura di attraversare la strada e sono rimasta ferma senza muovermi per molto tempo. Alla fine ho preso l’ultimo autobus e sono tornata da mia madre. Era notte”,
dice.

Sette anni di prigione ed è come se non fosse cambiato nulla. Guadalupe vive dalla zia, l’aiuta a sgranare il mais. La sua voce e il suo volto sembrano ancora quelli di un’adolescente. “Dolce e forte”, come dice Laia Abril. “Quando mi fanno delle domande, a volte mi metto a piangere e a volte no”, afferma. “Ma non potrò mai dimenticare. Come si può dimenticare?”.

Qualche mese dopo essere uscita dal carcere, Guadalupe è rimasta di nuovo incinta ed è nata Britany. Il padre se n’è andato ma Guadalupe preferisce comunque essere sola. È una storia comune alle donne della sua famiglia. “Gli uomini sono infedeli e le donne vanno con altri. Così preferisco non sposarmi e vivere sola con la mia figlia”.

Britany soffre d’asma e una volta al mese Guadalupe la deve portare all’ospedale. Non salta mai un appuntamento. Pensa ad alta voce e dice che vorrebbe due figli. “Ma forse ne avrò nove, come mia madre. Secondo il proverbio, bisogna avere tutti i figli che Dio ci dà”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2017 sul numero 1236 di Internazionale.

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