Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2010 sul numero 876 di Internazionale.

Dove: nella toilette di un ristorante della catena Roy Rogers a Chapel Hill, in North Carolina. Quando: tanto tempo fa. Personaggio principale: un ragazzo bianco alto e magro con i capelli lunghi fino alle spalle.

Quel ragazzo ero io. Usando le dita come pettine, stavo facendo del mio meglio per dare una forma più decorosa alla mia massa di capelli scompigliati. Qualche minuto dopo dovevo incontrare la mia ragazza, Babushka, al banco delle insalate e volevo sembrare un selvaggio attraente, non un tipo trasan-dato.

Mentre stavo per completare quel tentativo rudimentale di migliorare il mio aspetto, mi cadde l’occhio sulla parete sotto il distributore di salviette di carta e vidi una scritta affascinante. “Sono stato Santa Cruzifisso e ho Californicato”, diceva, “e mi sembrava di essere in paradiso”.

Fui percorso da una scarica di energia kundalini. Ero abituato a cavalcare le onde della sincronicità, collezionare coincidenze significative era il mio hobby. Ma quello scarabocchio sul muro era un’onda di sincronicità straordinaria. Quel giorno, io e Babushka ci eravamo dati appuntamento per discutere la possibilità di saltare insieme su un Greyhound e andare in un posto che era il sogno di tutti gli aspiranti artisti: Santa Cruz, in California.

Mi sforzai di leggere quello che c’era scritto in piccolo sotto il messaggio. “Sai benissimo che non diventerai mai l’artista che eri destinato a essere”, diceva, “fino a quando non verrai a vivere a Santa Cruz”.

Mi venne la pelle d’oca e sentii un brivido lungo la schiena. Chiunque fosse, lo strano angelo che aveva scarabocchiato quelle parole sembrava averle pescate direttamente dal mio subconscio. L’idea che esprimevano corrispondeva esattamente alle mie speranze e alle mie paure. Ormai mi ero rassegnato al fatto che il mio desiderio di diventare un poeta e un musicista capace di ispirare la comunità era destinato a rimanere cronicamente frustrato finché avessi continuato a vivere nel profondo sud, seppure in una città universitaria come Chapel Hill. Lì non sarei mai stato nient’altro che uno sciroccato, un incrocio tra lo scemo del villaggio e un fenomeno da baraccone vagamente divertente.

In quel momento si decise il mio destino.

Consideravo un abominio gli oroscopi dei giornali, banali e scritti male, tutti, senza alcuna eccezione. Incoraggiavano le persone a essere superstiziose

Il primo giorno di primavera, io e Babushka arrivammo a Santa Cruz con novanta dollari in tasca. Eravamo due allegri vagabondi, che di giorno dormivano nel parco e dalle undici di sera alle sei di mattina giravano per i locali. Quando non eravamo impegnati a chiacchierare con un flusso continuo di svitati alquanto pittoreschi, mi mettevo a fantasticare e facevo progetti su come costruire la mia carriera artistica nella terra promessa.

Nel giro di pochi mesi, non solo avevo trovato un piccolo appartamento nel seminterrato sotto il garage della casa di una vecchia signora, ma stavo già per raccogliere i successi per i quali avevo deciso di trasferirmi a Santa Cruz.

Poco più di tre settimane dopo che ero sceso dall’autobus che mi aveva portato lì, mi ero esibito al Good Fruit Company cafe. Le mie canzoni Blasphemy blues e Reptile rodeo man, e il mio lungo farneticante poema Microwave beehive star avevano fatto colpo sul critico di un giornaletto che si occupava di spettacoli, il quale aveva definito la mia performance “uno sconvolgente comunicato dall’inconscio collettivo che faceva venire l’acquolina in bocca e solleticava l’id”.

Per sfogare la mia energia repressa, mi esibii in una serie di letture di poesie e di performance in diversi locali e spettacoli di strada. Fotocopiai e vendetti 212 copie del mio primo libro fatto in casa di ballate e racconti, Crazy science, e praticai l’arte della demagogia illuminata in un programma radiofonico che andava in onda a tarda notte sulla stazione locale Kzsc intitolato Babbling ambiance.

Ma soprattutto, riuscii a mettere insieme il mio primo gruppo musicale, i Kamikaze Angel Slander. Quando suonammo per la prima volta alla festa di un amico, il nostro repertorio era costituito solo da cinque canzoni che avevo scritto in North Carolina, le cover di due pezzi di David Bowie e quattro brani epici che avevo composto con la band, tra cui The prisoner is in control.

C’era solo una cosa che frenava la mia crescente euforia: la povertà più nera. Con nessuno degli spettacoli o dei concerti riuscivo a guadagnare più di quanto mi serviva per realizzarli. Sembrava che la vita mi stesse dicendo insistentemente che dovevo rinunciare a una parte dei miei progetti e cercare uno stipendio fisso. Il fatto di essermi iscritto all’università della California a Santa Cruz mi aiutava un po’: per qualche tempo ottenni prestiti e borse di studio dal governo in cambio di poche ore alla settimana di frequenza ai corsi di poesia e scrittura creativa. Anche i buoni pasto che ricevevo ogni mese contribuivano alla mia causa.

Nonostante l’aiuto dello stato sociale, ero però ancora costretto ad abbassarmi a qualche lavoretto part time. Tra le varie umiliazioni, ci furono periodi in cui dovetti lavare piatti nei ristoranti, posare come modello per i pittori e raccogliere mele. Anche così riuscivo a malapena a pagare l’affitto e avevo difficoltà a dotarmi di quegli accessori di cui una stella del rock in ascesa non può fare a meno: un’auto e dei buoni strumenti musicali.

Vivevo in uno squallido seminterrato con solo un capriccioso termoventilatore per scaldarmi le mani mentre componevo inni alla ribellione sulla mia tastiera da quattro soldi e con tre tasti rotti. Di tanto in tanto ero obbligato a ricorrere a un trucco che avevo imparato da un amico senzatetto: gironzolare nei self service e razziare quello che i clienti lasciavano nei piatti. Il mio guardaroba? Tanto i vestiti di tutti i giorni quanto i miei costumi di scena venivano da un magazzino chiamato Bargain barn, dove l’usato costava mezzo dollaro al chilo.

Vista la mia situazione, ogni volta che mi si presentava l’opportunità di guadagnare qualcosa con la scrittura creativa la coglievo al volo.

Mi avevano appena rubato la bicicletta e per sostituirla con una usata decisi di guardare gli annunci del Good Times, il più importante settimanale di Santa Cruz. Mentre scorrevo la sezione “miscellanea” mi cadde l’occhio su un’inserzione interessante.

Francesca Ghermandi per Internazionale

“Cercasi collaboratore per la rubrica di astrologia. Inviare un esempio per la settimana del 26 gennaio all’attenzione del direttore, all’indirizzo 1100 Pacific Avenue, Santa Cruz 95060”.

All’inizio rimasi confuso. Da quello che sapevo Good Times aveva già una rubrica di astrologia. Mi misi a sfogliare il giornale per trovarla, ma era sparita. Il suo autore si era arreso? Non che ne sentissi la mancanza. Le rare volte che l’avevo letta, avevo avuto l’impressione che il suo stile coprisse tutta la gamma che andava dai più sdolcinati cliché new age alla pura idiozia.

Naturalmente avevo sempre disprezzato le rubriche di astrologia, e forse trovavo quella di Good Times addirittura più ridicola di tante altre. Sebbene fossi ancora alle prime armi in materia, i miei standard sulla pratica di quell’arte antica erano molto alti. E consideravo un abominio gli oroscopi dei giornali, banali e scritti male, tutti, senza alcuna eccezione. Incoraggiavano le persone a essere superstiziose e a trarre la conclusione, assolutamente sbagliata, che l’astrologia predica la predestinazione e nega il libero arbitrio. Non solo rifilavano ai lettori creduloni consigli inutili che assecondavano le forme meno interessanti di egoismo, ma – fatto peggiore – si fondavano su una conoscenza minima della vera astrologia. Un esperto serio, per esempio, sa benissimo che per poter valutare le energie cosmiche bisogna riflettere sui movimenti e i rapporti tra tutti i corpi celesti, non soltanto il Sole. Invece gli oroscopi dei giornali basavano le loro finte “predizioni” esclusivamente sulla posizione del Sole. Partivano dall’assurdo presupposto che le vite di milioni di persone che condividono un segno vadano tutte nella stessa direzione. Consapevole di tutto questo, mi ingegnai di trovare un sistema razionale per ottenere quel lavoro. La prospettiva di essere pagato per scrivere qualcosa, qualsiasi cosa, era entusiasmante. E l’idea di avere uno stipendio regolare lo era ancora di più. Si trattava di una rubrica settimanale, non di un unico articolo.

Inoltre, non poteva rivelarsi più umiliante degli altri lavori che ero stato costretto a fare.

“È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve farlo”, fu lo slogan iniziale della campagna per convincere me stesso. Appurato che gli argomenti a favore della decisione di scrivere una rubrica di astrologia superavano quelli contro, il passo successivo consisteva nel trovare un modo di scriverla che non mi desse l’impressione di ingannare i lettori. Fu allora che decisi di diventare un poeta sotto mentite spoglie.

Dalle tirate farneticanti che rifilavo al pubblico tra un pezzo musicale e l’altro alle strofe leggermente più coerenti che producevo per le lezioni di scrittura creativa all’università, mi ero molto impegnato a coltivare quest’arte e volevo che per me diventasse indispensabile come l’aria.

Certo, non potevo fare a meno di notare che la cultura in generale giudicava la poesia antiquata e noiosa. Persone che consideravo geni come John Berryman, W.S. Merwin e Galway Kinnell non stavano certo facendo i soldi con le loro creazioni poetiche.

Capivo benissimo perché i lettori non apprezzavano la forma d’arte che io amavo tanto. Quasi tutti i poeti erano accademici casti e morigerati, assolutamente privi di senso dell’umorismo. Era incredibile quanta poca energia psichica, quanto poco divertimento emergesse dalla casta che secondo me avrebbe dovuto abbattere le frontiere dell’immaginazione. Per me la poesia doveva essere impegnativa, complessa, sottile e misteriosa da impazzire. Tutto stava nell’interrompere la routine della coscienza di veglia, nel sabotare i cliché e il buon senso, nel reinventare la lingua. Ma perché tanta parte di questo nobile lavoro doveva essere così fiacca, pretenziosa e inaccessibile?

L’altra parte
E poi c’era il mio progetto segreto. M’irritava che così poche delle “antenne della razza umana” avessero il coraggio di provare emozioni più intense facendo uso di sostanze psichedeliche. Come si poteva interrompere la trance del consenso senza squarciare ogni tanto il velo e affacciarsi dall’altra parte? Ginsberg, almeno, aveva avuto il fegato di seguire la strada degli sciamani. Berryman sembrava aver ottenuto le stesso risultato con l’alcol.

Per quanto mi riguardava, ero entrato in contatto con l’altra parte del velo che tanto mi attraeva prima ancora di ricorrere alla tecnica psichedelica. Ricordavo sempre i miei sogni e ne facevo tesoro fin da quando ero bambino, e a tredici anni avevo preso l’abitudine di annotarmeli. Con questa continua immersione nel regno dei sogni mi resi conto molto presto che esistevano altre realtà oltre alla piccola nicchia che ognuno di noi occupa normalmente. I miei esperimenti psichedelici non fecero che confermare questa certezza.

Man mano che mi convincevo che la mia educazione formale mi aveva tenuto nascosti nove decimi della realtà, mi misi alla ricerca dei testi che documentavano l’esistenza della parte mancante. Leggendo Jung, Campbell, Graves ed Eliade scoprii che sciamani, alchimisti e maghi la descrivevano da millenni. Le loro opere mi indirizzarono verso la ricca letteratura dell’occultismo occidentale, i cui autori non erano accademici ma esploratori che avevano davvero visitato i luoghi di cui parlavano.

I loro numerosi racconti non concordavano completamente, ma molte delle loro descrizioni coincidevano. L’idea comune a tutti era che l’altra parte del velo non fosse un unico territorio ma una miriade di regni diversi, alcuni più simili all’inferno, altri al paradiso. Si chiamavano tempo del sogno, quarta dimensione, oltretomba, piano astrale, inconscio collettivo, aldilà, eternità, stato intermedio e Ade, solo per citarne alcuni.

C’era anche un altro punto sul quale tutti gli esploratori si trovavano d’accordo. Gli eventi che si verificano in quei regni “invisibili” sono la causa di quello che accade qui da noi. Gli sciamani visitano il mondo degli spiriti per curare i loro pazienti, perché la malattia ha origine là. Per i cabalisti, la Terra visibile non è altro che un minuscolo affioramento alla fine di una lunga catena di creazioni che partono da un punto inconcepibilmente lontano e al tempo stesso vicino e presente. Perfino gli psicoterapeuti moderni credono in una versione materialistica dell’antica idea che il modo in cui ci comportiamo oggi dipenda da eventi avvenuti in luoghi e tempi lontani.

Via via che facevo mie le testimonianze su quella terra di tesori nascosti, mi rendevo conto che i sogni e le droghe non rappresentavano il suo unico punto d’accesso. Ci si poteva entrare anche con la meditazione o alcune forme di canto e di danza, con certe cantilene e rulli di tamburo. La tradizione tantrica ci insegnava che si può raggiungere pure con determinati tipi di comunicazione sessuale. E, naturalmente, con la morte.

Volevo passare per tutte quelle porte, tranne l’ultima. Marijuana, hashish e lsd funzionavano molto bene (non ho mai avuto esperienze negative), ma era troppo difficile interpretare le loro rivelazioni. Quando tornavo da un viaggio psichedelico, non riuscivo a tradurre le verità che avevo scoperto sulla quarta dimensione in qualcosa di utile per la normale coscienza di veglia. Lavorando sui sogni avevo visto crescere gradualmente sia la capacità della mia mente inconscia di generare storie cariche di significato sia quella della mia mente conscia di interpretarle, invece il mio lavoro di scoperta dei tesori nascosti nei luoghi esotici dove mi portavano le droghe procedeva a tratti.

Il problema era che, diversamente dalle altre tecniche, quella psichedelica aggirava la mia volontà. Con il suo ariete chimico sfondava semplicemente le porte della mia percezione. Non richiedeva nessuna abilità da parte mia. Uno dei miei maestri di meditazione mi disse che usare droghe, per quanto in modo responsabile, era come voler “penetrare nel regno dei cieli con la violenza”.

Gradualmente, perciò, misi fine al mio rapporto con la magia illegale e decisi di raggiungere la conoscenza con la fatica e l’impegno. L’interpretazione dei sogni, la meditazione e l’esplorazione tantrica divennero i pilastri della mia ricerca. Con il passare del tempo, imparai ad accedere alla periferia del mistero anche con il canto e con la danza.

Però devo confessare che il mio progetto non diede immediatamente i frutti che speravo. Anche i miei sogni lucidi più estatici e le mie meditazioni più illuminate non producevano immagini vivide e struggenti dell’altra parte del velo come quelle che mi regalavano i viaggi psichedelici. Nemmeno il sesso tantrico e le trance indotte dalla musica ottenevano lo stesso effetto.

Poi scoprii un messaggio che William Blake sembrava aver scritto apposta per me nella sua Visione del Giudizio universale: “Questo mondo dell’Immaginazione è il mondo dell’Eternità, è il seno divino che ci accoglierà dopo la morte del corpo Vegetato. Questo Mondo dell’Immaginazione è Infinito ed Eterno, mentre il mondo della Generazione, o Vegetazione, è Finito e Temporaneo. In quel Mondo Eterno esistono le Realtà Permanenti di Tutte le Cose che vediamo riflesse in questo Specchio Vegetale della Natura. Nelle loro Forme Eterne Tutte le Cose sono comprese nel corpo divino del Salvatore, la vera Vite dell’Eternità, l’Immaginazione Umana”.

Esultai per questa scoperta. Blake divenne un’arma segreta che potevo usare nella mia battaglia contro i poeti che si rifiutavano di essere “antenne della razza”, quelli che consideravano il mondo reale l’unico del quale la poesia potesse occuparsi.
Era pur vero che alcuni di quei poeti, che io definivo “materialisti”, m’ispiravano. William Carlos Williams, per esempio, mi aveva insegnato molto sull’arte di cogliere la bellezza concreta.

Adoravo questa sua poesia: “Così tanto dipende /da una / carriola rossa / laccata dall’acqua / piovana / accanto alle galline / bianche”.

Williams era il migliore dei poeti materialisti. Le sue opere mi aiutarono ad affinare le mie percezioni e a rendere il mio linguaggio più vigoroso. Ma il mio amico Blake mi diede i fondamenti teorici grazie ai quali potevo ribellarmi a Williams e salire a un livello più alto. Secondo Blake, i mondi che sogniamo nella nostra immaginazione potrebbero essere più reali della carriola rossa.

Quello con lui fu il mio incontro più importante. Anche allora, nonostante la mia immaturità, ero cauto nell’usare in modo indiscriminato questo concetto liberatorio. Avevo letto gli occultisti P.D. Ouspensky e G.I. Gurdjieff, e mi avevano fatto intuire che è a causa dell’immaginazione fuori controllo e al servizio dell’ego che la maggior parte delle persone mente costantemente a se stessa, creandosi un inferno in Terra. Ovviamente, questo non era il tipo di immaginazione che intendeva Blake. Giurai di tenerlo sempre a mente.

Più reale di una carriola rossa, Blake mi dimostrò che c’era un’altra via d’accesso alla quarta dimensione: essere un artista creativo, sforzarsi con ogni mezzo di disciplinare e sovralimentare il motore dell’immaginazione. Fu una scoperta estremamente piacevole. Compresi che la passione che avevo di giocare con la musica, la lingua e le immagini poteva combaciare perfettamente con il mio desiderio di bighellonare nei Campi Elisi.

Quel che ci succede, mi dissi, tende a essere quel che pensiamo ci succederà. Il carburante del mondo sono le profezie che si autoavverano

Inoltre se era vero, come dicevano Blake e gli sciamani, che tutto quello che accade sulla Terra ha origine nel mondo dello spirito, chi era in grado di usare bene l’immaginazione potenzialmente collaborava con Dio alla creazione, non solo descrivendo quello che succede quaggiù, ma dandogli origine dal nulla. Volevo essere così. Volevo volare nella quarta dimensione, perlustrare la fonte dei confusi eventi che si verificavano sul piano materiale, e risanarli. O meglio ancora, fantasticavo di sentirmi tanto sicuro e a mio agio nel tempo dei sogni da poter frugare in quel mondo alla ricerca di archetipi affascinanti ma ancora in embrione da catturare e portare sulla Terra affinché maturassero.

Tutti questi pensieri mi affollavano la mente mentre tentavo d’immaginare come scrivere una rubrica di astrologia senza violare la mia integrità. Volevo ottenere quel lavoro a ogni costo. In un modo o nell’altro l’avrei avuto. Ma sarei stato molto più contento se fossi riuscito a confutare le accuse che mi lanciava la mia coscienza di essere “un imbroglione e un ruffiano” con le mie pretenziose cazzate su William Blake e la tradizione sciamanica.

“Più reale di una carriola rossa”. Perché non chiamare così il mio oroscopo? Perché non fare tutto quello che mi suggeriva l’immaginazione e nasconderlo dietro un oracolo astrologico? Non esisteva sicuramente nessun Comitato internazionale sulle regole da rispettare negli oroscopi al quale avrei dovuto rendere conto. Anzi, se avessi scritto i miei oroscopi sotto forma di lettere d’amore ai lettori probabilmente nessuno si sarebbe lamentato delle teorie blakiane e sciamaniche che ci mettevo dentro.

Ciò che fino ad allora avevo odiato delle rubriche di astrologia era che non si basavano su alcun dato astrologico serio e non potevano dare un’interpretazione corretta della vita di tanti lettori contemporaneamente. Spinto da quello che ormai era diventato un proposito irrefrenabile, cominciai a vedere la cosa da un’angolatura diversa. Quel che ci succede, mi dissi, tende a essere quel che pensiamo ci succederà. Il carburante del mondo sono le profezie che si autoavverano. Perciò i miei oracoli sarebbero stati esatti per definizione: chiunque li avesse presi sul serio inconsciamente sarebbe andato nella direzione che gli avevo indicato. Finché avessi mantenuto un tono ottimistico e incoraggiante, nessuno poteva accusarmi di manipolare i lettori.

Per scrivere il mio primo oroscopo ci misi 43 ore. C’erano dei passaggi felici come questo: “Quella che tu sfoderi, Scorpione, per discrezione non la chiamo magia nera ma grigia, vivida e smagliante: ti trasformerai in un affascinante enfant terrible che gioca con noiosi teoremi, in un indispensabile piantagrane che stravolge con il suo fervido casino tutte le tattiche più giudiziose. Se poi per compassione riuscirai a temperare il tuo carattere da stronzo alla fine nessuno verrà morso, anzi tutti apprezzeranno lo spettacolo e l’incanto”.

Ma questa prima creazione, e svariate delle successive, non corrispondeva alle mie nobili intenzioni. Tuttavia, il mio modo di scrivere fu abbastanza spumeggiante da conquistarmi il favore del direttore di Good Times. O forse quel brav’uomo si accorse semplicemente che conoscevo bene l’ortografia e la grammatica e pensò che non ci sarebbe stato molto da correggere. Per quanto ne so, ero stato l’unico a presentare domanda per quel lavoro. Non che il compenso previsto potesse attirare le folle. Come scoprii al primo incontro con il mio capo, la paga era di quindici dollari alla settimana, così bassa che avrei ancora avuto diritto ai buoni pasto.

Ma la considerai una fortuna, visto che sarei stato pagato per fare il poeta sotto mentite spoglie. Il mio progetto a lungo termine, dopotutto, era quello di costruirmi un’immaginazione abbastanza fervida da permettermi di accedere regolarmente alla quarta dimensione senza l’aiuto della psichedelia. E quale allenamento poteva essere migliore dello sfornare ogni settimana dodici oracoli sotto forma di forbite bombe verbali?

Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2010 sul numero 876 di Internazionale. È l’introduzione del libro Roboscopo (Rizzoli 2010), il meglio di dieci anni di oroscopi di Rob Brezsny.

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