Le criptovalute crollano perché il capitalismo è in crisi
Nel mercato delle criptovalute la festa sembra essere finita. Il 16 maggio il suo titolo più rappresentativo, il famoso bitcoin, aveva perso quasi il 28 per cento del suo valore rispetto a fine marzo, scendendo a 29.500 dollari. Rispetto al suo massimo storico dell’8 novembre 2021, quando toccò il picco di 68mila dollari, il valore della principale criptovaluta ha perso il 57 per cento. L’11 maggio era sceso addirittura sotto la soglia dei 29mila dollari, una cosa mai vista dal 30 dicembre 2020.
Il calo, peraltro, è generalizzato. L’altra stella del mercato, ethereum, il 13 maggio è scesa al suo minimo in dieci mesi, a 2.014 dollari: il 58 per cento in meno rispetto al novembre 2021. In tutto, la capitalizzazione totale del mercato è passata da 3.300 a 1.300 miliardi di dollari nello stesso periodo. Nella sola settimana del 9 maggio, il ribasso ha sfiorato i seicento miliardi di dollari, l’equivalente del pil di un paese come l’Argentina o la Svizzera.
Certo, non è il primo crack di questo tipo. Nell’aprile 2021, dopo una stretta dello stato cinese sulle criptovalute, il bitcoin aveva già perso fino al 56 per cento in tre mesi, scendendo sotto quota trentamila dollari nel giugno del 2021. Alla fine si era ripreso, raggiungendo il record dello scorso novembre. La vicenda aveva confermato la fede incrollabile dei sostenitori delle criptovalute nel loro valore. Sembrava che queste avessero superato la prova e che fossero capaci di resistere a tutto.
Un castello di carte
E invece nel maggio 2022 tutto è crollato di nuovo. La cosa è bastata, di per sé, a confermare la natura instabile di questi titoli, capaci di perdere il 56 per cento del loro valore in un anno, riguadagnarne il 100 per cento, salvo poi perderne nuovamente oltre la metà. Questa volatilità dimostra anche che le criptovalute non sono quello che i loro sostenitori affermano, cioè l’oro moderno: un bene rifugio in grado di proteggere dall’inflazione e dalle manipolazioni monetarie degli stati.
Le criptovalute si sono rivelate una bolla gonfiata dalle immissioni di liquidità delle banche centrali
Era stata una decisione della Cina, nel 2021, a provocare un primo crollo. Questa volta è stata la crescita vertiginosa dei prezzi al consumo: l’ipotesi è che la stretta monetaria (decisa da alcune importanti banche centrali, tra cui quella degli Stati Uniti, per cercare di frenare l’inflazione) privi le criptovalute delle condizioni necessarie per sostenere la crescita. Allo stesso tempo, l’inflazione ha incentivato la vendita di valuta digitale per comprare titoli più stabili, quindi capaci di far fronte all’aumento dei prezzi.
La moda sta passando
Il mito libertario delle criptovalute è crollato come un castello di carte. Lungi dal fare concorrenza alle monete tradizionali, questi titoli sono degli strumenti finanziari puramente speculativi e per questo altamente sensibili alle condizioni finanziarie contingenti. Poiché dal 2008 la finanza è drogata da immissioni massicce di liquidità delle banche centrali, le criptovalute non sono una difesa contro le manipolazioni del mercato, ma al contrario una loro conseguenza.
C’è da dire che la situazione solleva spunti interessanti: le valute digitali che avrebbero dovuto permettere di sfuggire al controllo e alle manipolazioni dei poteri pubblici in realtà si sono rivelate una bolla gonfiata dalle banche centrali. Il ritorno dell’inflazione, poi, ha svolto il ruolo di giudice di pace: la maggior parte degli attori ha ritenuto che l’aumento dei prezzi e la possibile stretta monetaria siano state la campanella che ha sancito la fine della crescita delle criptovalute, e che quindi era arrivato il momento di incassare le plusvalenze. Le criptovalute, insomma, hanno seguito dopo alcune settimane l’inevitabile parabola al ribasso tracciata dai mercati finanziari, in particolare quella dei titoli tecnologici.
Questa volta la questione appare molto più seria. Il 10 maggio i risultati trimestrali della Coinbase, la principale piattaforma per lo scambio di criptovalute, hanno mostrato una flessione nei volumi delle transazioni, sia degli utenti sia dei guadagni, anche se tra gennaio e marzo i prezzi erano scesi rispetto ai massimi di novembre. Questo indicherebbe che la moda sta passando. Le criptovalute avrebbero toccato un loro massimo in termini d’interesse. Le montagne russe del 2021 hanno sicuramente scoraggiato più di una persona e messo in dubbio la retorica di una crescita inevitabile e continua. In concreto questo significa che i nuovi investitori arrivati per comprare al ribasso e per far ripartire il mercato sono meno numerosi di quanto ci si aspettava. La correzione al rialzo, quindi, potrebbe essere meno marcata, ammesso che si verifichi. In realtà non c’è niente di meno certo, perché i movimenti di correzione sugli altri mercati, in particolare su quello dei titoli tecnologici, non accennano a stabilizzarsi.
Stablecoin, gettoni cambiavalute
Anche le stablecoin sono delle criptovalute, ma sono state create per proteggere il valore della moneta digitale dalle fluttuazioni del mercato e soprattutto per offrire uno strumento finanziario direttamente convertibile in moneta reale. Sono ampiamente usate sul mercato per comprare e vendere criptovalute classiche. Infatti è difficile cambiare dollari in bitcoin o in ethereum: il processo può richiedere tempo e costare caro. Passare attraverso una stablecoin permette di agire direttamente sul mercato. Questi gettoni sono quindi una sorta di cambiavalute che svolge una funzione centrale: garantire liquidità e sicurezza. Sono fondamentali per il funzionamento dei mercati, e la loro capitalizzazione ha toccato i 180 miliardi di dollari prima del crollo, cioè circa il 10 per cento del mercato totale delle criptovalute. Anche se, secondo alcune fonti, quasi il 70 per cento delle transazioni in bitcoin è realizzato attraverso stablecoin.
Ma il meccanismo di stabilità funziona solo se i titoli mantengono le loro promesse: essere un quasi contante agganciato al valore di mercato del dollaro statunitense. Ed è qui che cominciano i problemi. Di fatto i mercati usano quattro grandi stablecoin: terra, usd coin, binance usd e tether. Ognuna ha un modo molto particolare di garantire il proprio valore, ma nei momenti di difficoltà questi meccanismi sono messi a dura prova. Se le garanzie si rivelano fragili, il crollo è inevitabile. È quello che è successo a maggio.
Il crollo di terra è un campanello d’allarme. Dimostra che parte dei pilastri del mercato speculativo delle criptovalute ha i piedi di sabbia. Le stablecoin non sono contanti, come molti credevano ciecamente. Una volta chiarito questo aspetto, l’incertezza si estende anche agli altri strumenti, a partire dal più importante: tether.
La debolezza di tether
Tether è la stablecoin più importante: complessivamente vale quasi la metà del mercato, con una capitalizzazione che agli inizi di maggio superava gli 80 miliardi di dollari. In teoria tether è molto più stabile di terra. Per garantirne il valore, i suoi creatori usano un sistema di riserve in dollari.
Il problema è che qui siamo nel mondo delle criptovalute, cioè un mondo scarsamente regolamentato. È difficile sapere in che modo tether realizzi le coperture. Secondo i suoi dirigenti, solo il 4 per cento delle riserve di terra era denaro reale, il resto era costituito da cambiali. Questi titoli di debito commerciale a breve termine sono considerati equivalenti al denaro contante, ma in realtà non lo sono, perché per ottenere liquidità questi titoli devono essere venduti. Tutto quindi dipende dal loro valore e dall’andamento del mercato.
Di norma nessuno se ne è mai preoccupato. Ma dopo il crollo di terra, il mercato ha cominciato a dubitare della stabilità di tether. La sfiducia è contagiosa e, in assenza di una reale sicurezza, alcune persone hanno ridotto la loro esposizione. L’11 maggio è stato venduto l’equivalente in tether di un miliardo di dollari, e il giorno successivo è arrivato un altro crollo. Il valore della stablecoin è sceso improvvisamente del 4 per cento in un mattinata.
La capitalizzazione di tether è crollata del 10 per cento. Le vendite di massa sono un sintomo di sfiducia da parte del mercato
In questo caso il calo è stato rapidamente compensato, e tether è riuscito a salvare gran parte del suo valore, se non tutto. Dal 13 maggio vale lo 0,12 per cento in meno rispetto alla parità col dollaro, ma il valore è stabile. Tuttavia questo incidente di percorso lascerà il segno. In primo luogo perché, anche se l’intervento ha in parte ripristinato la parità, la capitalizzazione del titolo ha subìto un forte calo: il 10 per cento in una settimana, pari a otto miliardi di dollari. La perdita si spiega solo con vendite massicce, che riflettono una perdita di fiducia.
L’impatto sui mercati
In queste condizioni assume un ruolo centrale la questione delle conseguenze dei crolli per l’economia reale. La più importante consiste nel capire se il crollo delle criptovalute avrà un effetto domino sul resto del sistema finanziario. Avremmo quindi una sorta di contraccolpo: il crollo dei mercati produrrebbe il crollo delle criptovalute, che a sua volta accelererebbe la caduta dei mercati, gravando sui profitti del settore finanziario. Spesso s’innescano così le spirali che portano al tracollo dell’intero sistema.
Finora la regola prevedeva che le criptovalute fossero un mondo piuttosto chiuso, quindi con una possibilità di contagio ridotta. Negli ultimi mesi, tuttavia, l’aumento delle valutazioni ha attirato sempre più investitori, anche istituzionali, che volevano una fetta della torta.
Ma nella finanza moderna le esposizioni dirette non sono sempre rappresentative del rischio. Il crollo delle criptovalute potrebbe innanzitutto generare un’ondata di insicurezza e panico globali, che potrebbero contagiare altri mercati.
Nel frattempo alcuni saranno colpiti più di altri. Tutti gli occhi sono naturalmente puntati su El Salvador, il paese centroamericano guidato da Nayib Bukele, un presidente fanatico delle criptovalute. Dopo aver reso il bitcoin la moneta ufficiale del paese insieme al dollaro, nel 2021 il governo ne ha promosso l’uso in modo massiccio. La sua ambizione è ora quella di creare una Bitcoin city, una città senza tasse, dove l’energia necessaria per il processo di estrazione delle criptovalute sarebbe ricavata dall’energia di un vulcano attivo.
Bukele, il cui governo, peraltro, sta attraversando una deriva autoritaria, non si sta facendo scoraggiare dalla flessione dei mercati. Da buon adepto del credo delle criptovalute, vede nella situazione un’opportunità di acquisto a buon mercato. All’inizio di maggio il fondo sovrano salvadoregno ha ricomprato bitcoin a più di trentamila dollari. Tuttavia, le perdite accumulate da El Salvador in questo mercato ammontano complessivamente a quaranta milioni di euro.
Il problema è che, da quando il paese si è lanciato in quest’esperimento, ha perso l’accesso ai mercati finanziari dominati dal dollaro, che resta la valuta più usata nel paese (El Salvador ha rinunciato alla moneta nazionale nel 2001). Il deficit commerciale, inoltre, pesa sulle riserve del paese.
La domanda che ci si pone ormai è se, viste le perdite passate e future sul bitcoin, El Salvador sarà in grado di rispettare la prossima scadenza di rimborso del debito, restituendo gli ottocento milioni di dollari che deve pagare nel gennaio 2023. Secondo le agenzie di rating, anche se il governo supererà questa scadenza, la pressione sulle finanze pubbliche resterà alta. Il rischio quindi non è tanto che il calo del bitcoin pesi sui suoi pochi utenti salvadoregni, quanto sullo stato stesso, portando a una crisi del debito e a una stagione d’austerità che colpirebbe i cittadini più fragili.
Cosa significa il crollo
C’è anche il rovescio della medaglia. Questa crisi e il caso del Salvador potrebbero scoraggiare la tentazione di molti paesi emergenti di sfuggire al sistema finanziario internazionale attraverso le criptovalute. Qualche settimana fa la Repubblica Centrafricana ha seguito l’esempio del Salvador. Tuttavia, come dimostra il paese centroamericano, questa speranza è una falsa illusione: non solo espone la Repubblica Centrafricana ancora di più all’azione degli speculatori, ma non le permette neanche di liberarsi della sua dipendenza dal dollaro e dai mercati finanziari internazionali.
Nel complesso il crollo delle criptovalute è anche una buona notizia per l’ambiente. L’estrazione delle monete e le operazioni finanziarie con questi strumenti richiedono un consumo straordinariamente alto di risorse ed energia, a fronte di un’utilità molto contenuta. Lo 0,55 per cento della produzione mondiale di energia è dedicato a questa attività. Può sembrare poco, ma in realtà è troppo, soprattutto in un mondo da tempo entrato in una terribile crisi energetica e che sta cercando in ogni modo di ridurre i consumi.
Con lo scoppio della bolla, le criptovalute appaiono per quello che sono realmente: tentativi di sostenere la redditività globale del sistema capitalistico, sottoposto dal 2008 a una profonda crisi del sistema produttivo, come sottolinea l’economista Michael Roberts. Le criptovalute non sono che l’ennesimo capitolo di una manovra che intende sostenere l’espansione di un sistema stagnante. I fatti di questi giorni mettono in discussione anche un altro tentativo analogo: i token non fungibili, o nft, i cui volumi erano già scesi del 50 per cento nel primo trimestre dell’anno e che adesso si trovano ancor più sotto pressione.
Probabilmente è così che dobbiamo intendere il crollo delle criptovalute. L’esperimento libertario si è trasformato in una stampella del sistema di accumulazione di capitale. Il sogno di sostituire il potere politico monetario con il potere tecnologico ha portato a una maggiore integrazione nel sistema finanziario, senza contropoteri.
Finché le banche centrali garantivano una liquidità illimitata, le criptovalute potevano illudere molti. Ma ora le criptovalute si scoprono integrate alla crisi globale del modello neoliberista di gestione del capitalismo. La corsa in avanti del sistema ha creato molte bolle: immobiliare, delle criptovalute, della tecnologia e degli nft. Nessuna di queste è in grado di affrontare il problema principale del capitalismo contemporaneo: il rallentamento strutturale degli aumenti di produttività che pesa sulla redditività globale.
Inevitabilmente, così, è arrivato il momento in cui la realtà si impone sugli speculatori e il castello di carte finanziario crolla. In questo, l’inflazione ha svolto finora il ruolo di giudice di pace. Il crollo delle criptovalute è solo un capitolo di questa crisi sistemica. Non è quindi tanto l’emergere di questi beni, quanto la loro crisi, a segnare l’avvento di un mondo nuovo.
(Traduzione di Federico Ferrone)