Incontro di civiltà
Questo articolo è stato pubblicato il 26 novembre 2004 sul numero 567 di Internazionale.
Certe volte, ripensando a tutti i miei viaggi, ho l’impressione che il problema principale non siano stati i confini, i fronti di guerra, le difficoltà e i pericoli, ma la continua incertezza su come sarebbe stato l’incontro con gli altri, con quelli che avrei trovato strada facendo. Ho sempre saputo che da questo elemento dipendeva tutto, o quasi tutto. Ogni nuovo incontro era un’incognita: come sarebbe cominciato, come si sarebbe svolto, come si sarebbe concluso?
La domanda in sé non è nuova. L’incontro con un altro uomo, con altri uomini, è da sempre l’esperienza universale e fondamentale del genere umano. Secondo gli archeologi i primi raggruppamenti umani erano piccole famiglie-tribù composte al massimo da una cinquantina di elementi. Se la comunità fosse stata più numerosa, difficilmente sarebbe riuscita a spostarsi con la velocità e l’agilità necessarie. Più piccola, avrebbe trovato maggiori difficoltà a difendersi e lottare per la sopravvivenza. Dunque, la nostra piccola famiglia-tribù si sposta alla ricerca di cibo. Ma improvvisamente si imbatte in un’altra famiglia-tribù. Che momento importante per la storia del mondo, che clamorosa scoperta: nel mondo ci sono altri uomini! Fino a quel momento i membri di uno di quei primigeni gruppetti di trenta o cinquanta confratelli potevano illudersi di conoscere tutti gli uomini del mondo. Ora non possono più farlo, ora quest’uomo sa che al mondo ci sono altre creature simili a lui: altri esseri umani. Ma come reagire a questa rivelazione? Che fare, che decisione prendere?
Aggredire i viandanti? Proseguire facendo finta di niente? Oppure cercare di conoscerli e d’intendersi?
La scelta davanti alla quale – migliaia di anni fa – si è trovato il gruppo dei nostri antenati si ripropone oggi a tutti noi, e con la stessa intensità: una scelta categorica e fondamentale. Come comportarsi con gli altri? Che atteggiamento avere nei loro confronti?
La decisione di separarsi
Si può scegliere il duello, il conflitto, la guerra. Di eventi del genere conservano memoria gli archivi, i campi di battaglia, i resti di rovine sparse nel mondo intero. Sono testimonianze della sconfitta dell’uomo, della sua incapacità – o non volontà – d’intendersi con gli altri. Un tema al quale, nelle sue infinite varianti, si è ispirata la letteratura di ogni epoca e paese.
Ma può anche succedere che, invece di aggredire e combattere, la nostra famiglia-tribù decida di separarsi e isolarsi dagli altri. Un atteggiamento che nel tempo ha prodotto fenomeni sostanzialmente simili tra loro: la Grande Muraglia cinese, le porte di Babilonia, il limes romano e le mura di pietra degli incas.
Per fortuna, ci sono prove che il genere umano è capace anche di un altro atteggiamento. Sono prove di collaborazione: resti di mercati, luoghi di sosta per rifornirsi d’acqua, dove si trovavano agorà e santuari, dove sorgono tuttora le sedi di antiche università e accademie o dove ancora si conservano tracce di vie commerciali come la via della Seta, dell’Ambra o del Sahara.
Tutti luoghi dove la gente si è incontrata, ha scambiato idee e merci, ha fatto affari, ha stretto patti e alleanze, ha scoperto finalità e valori comuni. L’altro, il diverso, non era sinonimo di estraneità, ostilità ed eventuale morte. Ciascuno scopriva di avere in sé una piccola parte dell’altro, ci credeva e viveva con quella convinzione.
Ogni volta che l’uomo incontra l’altro gli si presentano tre possibilità: fargli guerra, ritirarsi dietro a un muro, aprire un dialogo.
L’uomo esita da sempre tra queste tre opzioni e – a seconda della situazione e della cultura – sceglie l’una o l’altra. Le sue scelte sono mutevoli: non sempre si sente sicuro. Quella della guerra è una scelta difficilmente giustificabile. Secondo me ne escono tutti perdenti, nel senso che la guerra rivela l’incapacità dell’uomo di capire, di immedesimarsi con l’altro, di mostrarsi buono e intelligente. In questo caso l’incontro con l’altro finisce sempre tragicamente, con il dramma del sangue e della morte.
L’abbandono della propria cultura si paga a caro prezzo. Per questo bisogna avere un’identità precisa
Nella nostra epoca è stata chiamata apartheid l’idea che ha portato l’uomo a innalzare muraglie e scavare profondi fossati per chiudersi dentro e isolarsi dagli altri. Anche se è stato attribuito solo al razzismo dei bianchi in Sudafrica, in realtà l’apartheid era stato già praticato in passato.
Semplificando, si tratta di una tesi secondo cui chiunque non appartiene alla mia stessa razza, religione e cultura, è libero di vivere come gli pare, purché lontano da me. La cosa, però, non è così semplice. In realtà si tratta di un concetto basato sulla fondamentale e insanabile diseguaglianza che divide il genere umano. I miti di molte tribù e di molti popoli rivelano la profonda convinzione che gli uomini siamo noi – i membri del nostro clan e della nostra società – mentre gli altri, tutti gli altri, sono subumani o addirittura non umani. Un’idea espressa molto bene in un’antica dottrina cinese, dove il non-cinese era considerato la feccia dell’umanità (sterco del diavolo) o, al massimo, una vittima del destino che non l’aveva fatto nascere cinese. In base a queste convinzioni, l’altro era considerato un cane, un topo, una serpe strisciante.
Un uomo o un dio
Appare molto diversa, invece, l’immagine dell’altro all’epoca delle credenze antropomorfiche, secondo cui gli dèi potevano assumere sembianze umane e comportarsi come gli uomini. Era impossibile sapere se il viandante, il vagabondo, l’ospite fosse un uomo o un dio travestito da uomo. Questa incertezza, questa intrigante ambivalenza è una delle fonti della cultura dell’ospitalità, che impone di accogliere il nuovo arrivato con la massima benevolenza possibile.
Ne parla il poeta polacco Cyprian Norwid (1821-1883), che nell’introduzione all’Odissea si chiede quali siano le ragioni dell’ospitalità ricevuta da Ulisse nel viaggio di ritorno a Itaca. “Qui, alla vista di un mendicante o di un vagabondo straniero”, osserva l’autore del Promethidion (poema dialogico del 1851), “ci si chiede subito se per caso non si tratti di un dio. Non si può domandare direttamente all’ospite di dirci chi è. Prima si onora la divinità dell’ospite, e solo dopo si passa alle domande. E questa è appunto l’ospitalità, non per niente annoverata tra le pratiche e le virtù religiose. Tra i greci di Omero nessuno è mai considerato l’‘ultimo degli uomini’: l’uomo è sempre il primo, ossia divino”.
Nella visione culturale greca descritta da Norwid, le cose rivelano un significato nuovo e favorevole all’uomo. Porte e cancelli non sono fatti solo per chiudersi e impedire l’accesso all’altro: possono anche aprirsi invitandolo a entrare. Le strade non servono solo al passaggio di eserciti nemici: possono anche essere la via lungo la quale, travestito da pellegrino, viene a trovarci un dio. Grazie a questa interpretazione, cominciamo a vivere in un mondo non solo più ricco e vario, ma anche più rassicurante, nel quale noi stessi siamo disposti ad andare per primi verso l’altro.
Emmanuel Lévinas definisce l’incontro con l’altro come un “evento”, anzi come “l’evento fondamentale”, quello più importante e che più si addentra nell’orizzonte dell’esperienza. Lévinas appartiene al gruppo dei cosiddetti filosofi del dialogo, come Martin Buber, Ferdinand Ebner e Gabriel Marcel, ai quali poi si è unito anche Józef Tischner.
Con le loro riflessioni hanno sviluppato l’idea dell’altro – in quanto esistenza unica e irripetibile – in contrapposizione più o meno diretta a due fenomeni del novecento: la nascita della società di massa, che cancella la diversità individuale, e la diffusione delle devastanti ideologie totalitarie.
Questi filosofi cercavano di salvare quello che per loro era il massimo valore, cioè l’individuo umano – io, tu, l’altro, gli altri – dall’azione della massa e del totalitarismo, entrambi livellatori dell’identità del singolo (da cui derivava la loro creazione del concetto dell’altro, per sottolineare la differenza tra un uomo e l’altro, tra caratteristiche inesprimibili e insostituibili).
È stata una corrente molto importante, che salvava e innalzava l’uomo, l’altro con cui non devo solo pormi faccia a faccia e stabilire un dialogo, ma del quale devo anche “assumermi la responsabilità”, come sosteneva Lévinas.
Per quanto riguarda il modo di procedere verso l’altro e gli altri, questi filosofi escludevano l’opzione della guerra – perché portatrice di distruzione – e criticavano la scelta dell’indifferenza e dell’isolamento dietro a un muro. Sostenevano invece la necessità – anzi l’assoluto dovere – dell’apertura, della cordialità e della benevolenza.
Il punto di vista europeo
Nell’ambito di pensieri e convinzioni come questi, di un simile atteggiamento, nasce e si sviluppa la grande opera scientifica dell’antropologo Bronislaw Malinowski (1884-1942).
Il problema di Malinowski era il seguente: come avvicinarsi all’altro quando non è un’entità astratta, ma una persona in carne e ossa, che appartiene a una razza diversa, con credenze, valori, cultura e usanze sue e diverse dalle nostre? Rendiamoci conto che il concetto di altro è quasi sempre definito dal punto di vista del bianco, dell’europeo. Ma quando mi capita di attraversare un villaggio di montagna in Etiopia, un gruppo di bambini mi insegue ridendo e gridando: “Ferenchi!”, che significa appunto altro, diverso. Per loro, il diverso sono io. In questo senso siamo tutti sulla stessa barca. Tutti noi siamo altri rispetto agli altri: io nei loro confronti, loro nei miei.
All’epoca di Malinowski e nei secoli precedenti l’uomo bianco europeo partiva dal suo continente quasi esclusivamente con scopi di conquista: dominare nuovi territori, trovare schiavi, commerciare o convertire. Si trattava quasi sempre di spedizioni molto violente: la conquista dell’America da parte degli uomini di Colombo e poi dei coloni bianchi; la conquista dell’Africa, dell’Asia, dell’Australia.
Malinowski partì per le isole del Pacifico con un altro scopo: conoscere l’altro. Conoscere i suoi vicini, le sue usanze, la sua lingua, il suo modo di vivere. Voleva vedere e sperimentare di persona, con i suoi occhi, per poi testimoniare. Ma il progetto, apparentemente ovvio e innocuo, finì per rivelarsi rivoluzionario e dissacrante. Svelò infatti la debolezza, più o meno accentuata, presente (o addirittura innata) in ogni cultura: e cioè che una cultura trova difficile comprenderne un’altra e che tale difficoltà riguarda anche chi ne fa parte e la diffonde. Dopo essere arrivato sul luogo delle sue ricerche, le isole Trobriand, l’autore constatò che i bianchi residenti lì da anni non solo non sapevano niente della popolazione locale e della sua cultura, ma ne avevano un’idea del tutto falsa, caratterizzata dall’arroganza e dal disprezzo. Infischiandosene delle usanze coloniali, Malinowski piantò la tenda in mezzo a un villaggio e si stabilì tra la popolazione locale. Non fu un’esperienza facile: nel suo diario si trovano continui accenni a preoccupazioni, sentimenti negativi, crisi e depressioni.
L’abbandono della propria cultura si paga a caro prezzo. Per questo è così importante avere un’identità precisa, e la certezza della sua forza, del suo valore e della sua maturità. Solo in questo caso l’uomo può confrontarsi senza paura con un’altra cultura. In caso contrario, si rintanerà nel suo nascondiglio, isolandosi dagli altri. Tanto più che l’altro è uno specchio nel quale ci riflettiamo – o che ci smaschera e ci denuda, cosa che tutti preferiremmo evitare.
Il fatto interessante è che, mentre nell’Europa di Malinowski era in atto la prima guerra mondiale, il giovane antropologo si dedicava a studiare la cultura dello scambio, dei contatti e dei riti comuni tra gli abitanti delle isole Trobriand. A essa dedicò lo splendido Gli argonauti del Pacifico occidentale, formulando la tesi fondamentale – ma raramente applicata – che “per giudicare qualcosa, bisogna essere sul posto”. Malinowski presentò anche un’altra tesi, quanto mai audace per quei tempi: e cioè che non ci sono culture superiori e inferiori, ma solo culture diverse, che soddisfano in modo diverso i bisogni e le aspettative di chi ne fa parte. Per lui l’individuo di un’altra razza e cultura è una persona il cui comportamento è determinato dalla dignità, dall’osservanza dei valori riconosciuti e dal rispetto per usanze e tradizioni.
I filosofi del dialogo
Malinowski cominciò i suoi studi mentre si sviluppava la società di massa. Noi, invece, viviamo nella transizione dalla società di massa a quella planetaria. Molti fattori contribuiscono a questo passaggio: la rivoluzione elettronica, l’incredibile sviluppo delle comunicazioni, l’estrema facilità nel collegarsi e spostarsi, oltre alla nuova consapevolezza nata tra le giovani generazioni e nella cultura in senso lato.
In che modo cambierà il rapporto tra noi e i rappresentanti di un’altra o di altre culture? Come influirà sul rapporto “io-altro” nell’ambito della mia cultura, oltre che fuori di essa? Una domanda a cui è difficile rispondere in modo univoco e definitivo, poiché si tratta di un processo ancora in atto, nel quale siamo personalmente coinvolti e quindi privi della distanza necessaria per giudicare.
Lévinas ha analizzato la relazione io-altro nell’ambito di un’unica civiltà, storicamente e razzialmente omogenea. Malinowski ha studiato le tribù melanesiane che ancora conservavano il loro stato primitivo ed erano immuni dagli influssi della tecnologia e del mercato occidentali.
Oggi una cosa del genere è sempre meno possibile. La cultura diventa ogni giorno più ibrida ed eterogenea. Qualche tempo fa, a Dubai, ho visto una cosa straordinaria. Una ragazza, sicuramente musulmana, camminava lungo la riva del mare. Indossava jeans e maglietta attillati, mentre la testa – ma solo la testa – era avvolta in un chador scuro così austero da non lasciare intravedere neanche gli occhi.
Oggi ci sono vere e proprie scuole di filosofia, antropologia e critica letteraria che studiano questo processo di ibridazione, innesto e trasformazione culturale. È un processo in atto soprattutto nelle regioni dove i confini statali sono anche frontiere tra culture (come quella tra America e Messico), o nelle gigantesche megalopoli (San Paolo, New York, Singapore) dove si mescolano razze e culture d’ogni genere. Quando si dice che il mondo è diventato multietnico e multiculturale, non è perché oggi ci siano più etnie e culture di prima, ma perché oggi esse parlano con voce più forte, autonoma e decisa, pretendendo di essere accettate, riconosciute e invitate alla tavola rotonda delle nazioni.
La vera sfida del nostro tempo – l’incontro con la nuova alterità, diversa per razza e cultura – deriva anche da un contesto storico più vasto. Nella seconda metà del novecento, i due terzi della popolazione mondiale si sono liberati dalla dipendenza coloniale diventando cittadini di stati propri e, almeno sulla carta, indipendenti. Gradualmente questi popoli hanno cominciato a scoprire il loro passato, i loro miti, le loro radici e la loro storia, ricavandone un comprensibile senso d’orgoglio. Hanno cominciato ad acquistare un’identità, a sentirsi padroni e signori del loro destino, odiando chiunque abbia cercato di trattarli come un oggetto, una comparsa, una vittima passiva di dominazione.
Oggi sul nostro pianeta, abitato per secoli da un ristretto gruppo di gente libera e da larghe masse di prigionieri, emerge un numero sempre crescente di nazioni e comunità convinte di possedere un valore individuale. Questo processo di consapevolezza si compie spesso a costo di difficoltà, conflitti e drammi di vasta portata.
Probabilmente ci stiamo inoltrando in un mondo così nuovo e diverso che le esperienze storiche attraversate finora si riveleranno insufficienti a capirlo e a muovercisi dentro. Comunque, il mondo nel quale stiamo entrando è il Pianeta della Grande occasione: un’occasione non certo incondizionata, aperta solo a coloro che prenderanno sul serio il loro compito, dimostrando però di non prendere troppo sul serio se stessi. Un mondo che se da un lato può dare molto, dall’altro pretende anche molto, e dove chi cerca scorciatoie spesso non arriva da nessuna parte.
Due correnti opposte
Incontreremo continuamente il nuovo altro, che pian piano emergerà dal caos e dalla confusione del mondo contemporaneo. Forse questo altro scaturirà dalla fusione tra le due opposte correnti della cultura moderna: quella che tende a globalizzare la nostra realtà, e quella che conserva la nostra individualità e unicità. L’altro potrebbe essere il frutto e l’erede di queste due correnti. Ecco perché dovremmo cercare di stabilire con lui un dialogo e un’intesa. L’esperienza acquisita in lunghi anni di convivenza con altri mi ha insegnato che la benevolenza è l’unico atteggiamento capace di far vibrare nell’altro la corda dell’umanità.
Chi sarà questo nuovo altro? Come si svolgerà il nostro incontro? Che cosa ci diremo? In quale lingua? Riusciremo ad ascoltarci? Riusciremo a far risuonare ciò che – come dice Conrad – “suscita la nostra capacità di provare meraviglia e ammirazione, il senso di mistero della vita, il nostro sentimento della pietà, del bello e del dolore, la segreta comunione con il mondo, la sottile ma indomabile certezza della solidarietà che unisce infiniti cuori umani, quell’identità di sogni, gioie, dolori, aspirazioni, illusioni, speranze e timori che accomuna l’uomo all’uomo e unisce l’intera umanità: i morti ai vivi e i vivi a chi non è ancora nato”?
(Traduzione di Vera Verdiani)
Ryszard Kapuscinski, morto il 23 gennaio 2007, è stato uno dei più importanti giornalisti contemporanei, autore di numerosi saggi e reportage. Era nato nel 1932 a Pinsk, nella Polonia orientale, oggi Bielorussia. Questo articolo è stato pubblicato il 26 novembre 2004 sul numero 567 di Internazionale.