Andrea Fasoli non sa come raccogliere i suoi prodotti. Dai suoi campi in provincia di Verona, l’imprenditore lancia il grido di allarme di un settore che sta subendo pesantemente i contraccolpi della crisi. Il nuovo coronavirus blocca le persone, chiude le frontiere, impedisce i movimenti. I braccianti stagionali che in questo periodo vengono in Italia soprattutto dall’Europa dell’est sono rimasti a casa, lasciando le aziende senza manodopera.

Fasoli coltiva una primizia del suo territorio: l’asparago bianco di Mambrotta. Per le sue caratteristiche, il prodotto dev’essere raccolto a mano con un coltello particolare. E richiede il lavoro di tanti braccianti. “Ogni anno per i miei dodici ettari impiego 25 operai agricoli, tutti romeni. Vengono qui per il periodo della raccolta, da adesso fino alla fine di maggio. Quest’anno sono solo in cinque, arrivati prima che chiudessero le frontiere”. Risultato: gli asparagi sono pronti, ma Fasoli non ha abbastanza forza lavoro per raccoglierli. “Oggi ci stiamo arrangiando con i miei familiari e i pochi operai che sono arrivati. Ma non so quanto potremo andare avanti. Probabilmente dovremo lasciare i prodotti a marcire nel campo”.

Il caso di Fasoli è solo uno dei tanti in giro per l’Italia: secondo le stime della Coldiretti, quest’anno mancheranno all’appello 370mila lavoratori che arrivano ogni anno dall’estero, principalmente da Romania, Bulgaria e Polonia. “Noi siamo una specie di avamposto perché raccogliamo per primi. Oggi sono gli asparagi, ma domani mancheranno le persone per raccogliere la frutta, per i seminativi, per tutte le colture. E allora sarà davvero la fame”, aggiunge Fasoli sconsolato.

L’intera filiera a rischio
Il quadro è fosco e potrebbe ulteriormente peggiorare, anche per il possibile stop di altri anelli della catena produttiva. “Il rischio è che tra un mese saremo fermi”, osserva Giuseppe De Filippo, responsabile della cooperativa ortofrutticola Futuragri di Foggia, che lavora e commercializza asparagi, cavolfiori, broccoletti, pomodori e meloni provenienti dai circa duemila ettari delle aziende associate. “Oltre al problema della manodopera nei campi, c’è quello dei capannoni di confezionamento. Noi adottiamo tutti gli standard di sicurezza e manteniamo le distanze necessarie, ma se un lavoratore risulta positivo al virus, i nostri magazzini giustamente vengono fatti chiudere. Anche se qui in Puglia abbiamo molti meno contagi rispetto al nord, statisticamente temo che succederà”.

Il settore della produzione agricola sta subendo danni rilevanti. Se finora è riuscito a garantire l’approvvigionamento alimentare, sconta un calo di fatturato enorme, determinato da una serie di fattori: la ristorazione che si è fermata, il calo della richiesta di prodotti freschi da parte di consumatori più propensi a fare scorte e ad acquistare prodotti secchi, e la totale chiusura di interi settori, come quello florovivaistico o quello degli agriturismi.

Il decreto “cura Italia” ha previsto alcune misure in favore del comparto: 100 milioni di euro a sostegno delle imprese agricole o ittiche che hanno dovuto sospendere le attività, 100 milioni di accesso al credito, l’anticipo dei contributi della Politica agricola comune (Pac), l’aumento del Fondo indigenti di 50 milioni di euro per assicurare la distribuzione delle derrate alimentari. Ma lo spettro all’orizzonte è davvero spaventoso e ci riguarda tutti: è quello di un paese in cui non si riesce più a produrre il cibo per mancanza di lavoratori. Mai come in questo periodo di crisi emerge un dato incontrovertibile: il made in Italy agroalimentare si regge in gran parte sulla manodopera straniera. Che oggi non riesce a venire.

“La situazione è grave e bisogna mettere in campo soluzioni di emergenza”, dice Romano Magrini, responsabile delle politiche del lavoro della Coldiretti. “Ed è per questo che chiediamo che siano reintrodotti i voucher in agricoltura e con questi la possibilità di impiegare nei campi i lavoratori in cassa integrazione o di altri settori che si sono fermati, come quelli della ristorazione e del turismo”. Si tratterebbe, secondo Magrini, di “una misura temporanea per tamponare la crisi e per ridare fiato sia all’agricoltura, che ha bisogno di manodopera, sia ai lavoratori di altri comparti”.

C’è poi un altro gruppo di lavoratori che potrebbero essere presi in considerazione: le migliaia di stranieri la cui domanda d’asilo non è stata accolta e che si trovano in Italia. Privi di tutele, spesso costretti a vivere in insediamenti informali in condizioni poco dignitose – tanto più rischiose in questo periodo di diffusione del virus – potrebbero essere messi in regola come lavoratori.

È la richiesta avanzata dalla Flai-Cgil insieme all’associazione Terra! e ad altri soggetti del terzo settore, tra cui Oxfam, A buon diritto, Da sud e Medici per i diritti umani. In un appello al presidente della repubblica Sergio Mattarella e ai ministri Teresa Bellanova (agricoltura), Nunzia Catalfo (lavoro), Luciana Lamorgese (interno) e Giuseppe Provenzano (sud), i promotori chiedono la regolarizzazione dei lavoratori che vivono nei ghetti attraverso la stipula di un contratto di lavoro stagionale: “Sarebbe una misura di equità e di salvaguardia dell’interesse nazionale in questa difficile fase in cui un eventuale pregiudizio all’agricoltura, nella sua funzione tutelare della sicurezza alimentare della comunità nazionale, sarebbe drammaticamente deleterio”.

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