Senza frontiere
Questo articolo è uscito il 19 giugno 2015 nel numero 1107 di Internazionale, a pagina 17. L’originale era uscito su Deca, con il titolo Homelands.
Quando ero in Liberia, durante la guerra civile del 2003, ho conosciuto Patience, una bambina di quattro anni. Monrovia, la capitale del piccolo stato dell’Africa occidentale, era sotto assedio. Patience era nella stanza buia di un orfanotrofio, in un palazzo su una striscia di terra pericolosamente stretta tra l’oceano Atlantico e un fiume che faceva da barriera all’avanzata dei ribelli. La donna che gestiva l’orfanotrofio mi disse che la notte prima due colpi di mortaio avevano sorvolato l’edificio precipitando da qualche parte tra l’orfanotrofio e la costa.
Patience, grandi occhi, capelli raccolti in due trecce e vestito blu a pois bianchi, mi guardava nell’oscurità. Nella stessa stanza c’era anche Emmanuel, un altro orfano di dieci anni, che sfogliava un album di fotografie a colori, rilegato in plastica nera e avvolto da una sottile pellicola trasparente. Un prato verde, una casa bianca, una bambina bionda e sorridente, un grande furgone, una grande area giochi, un tavolo pieno di cibo. “È un posto bellissimo”, mi disse Emmanuel con voce tranquilla. “Mi piacerebbe andarci”. Per Emmanuel quelle immagini di benessere erano lontane e affascinanti come il paradiso descritto da un prete. Per Patience, invece, erano una promessa non ancora mantenuta. Le foto in quel libro erano le foto della sua stanza, del suo cortile, della sua cucina, del suo furgone, della sua casa. Patience non avrebbe dovuto trovarsi in un posto con un pavimento di cemento e senza cibo a sufficienza, spaventata dal frastuono di una guerra che non poteva capire.
Patience era stata adottata da una famiglia di Minneapolis, negli Stati Uniti. Quasi un anno prima Ellen Carlson, la madre, aveva presentato insieme al marito Steve i documenti per l’adozione, ma la procedura si era rivelata insolitamente lenta. Quando le autorità di Monrovia avevano approvato l’adozione, i ribelli erano quasi arrivati in città. Mancava solo il visto statunitense, ma la guerra aveva fermato tutto.
Con la città sotto assedio, i Carlson non avevano speranze di far uscire Patience dal paese. Invece di un letto morbido e un tetto sicuro, la bambina aveva un album di fotografie e i vetri di una finestra contro cui lei e gli altri orfani potevano solo appoggiare il viso. Nella penultima pagina dell’album c’era una foto di Zoe, la figlia di Ellen e Steve, in un corridoio scintillante con la scritta: ti aspettiamo all’asilo. L’ultima pagina era bianca, fatta eccezione per tre file di grandi lettere nere, scritte da Ellen: di solito nelle storie a questo punto c’è scritta la parola “fine”, ma proviamo a scrivere “inizio”.
La differenza
Da quando ho conosciuto Patience in quel vortice di paura, guerra e morte, sono arrivato alla conclusione che la sua storia è la prova di una verità scomoda. Il nostro sistema di passaporti, limiti all’immigrazione e confini chiusi ha creato un mondo in cui un singolo fattore determina il destino di una bambina: la bandiera del paese in cui è nata.
La storia di Patience ci mette di fronte a una delle più importanti sfide morali del nostro tempo. In un mondo delimitato dalle frontiere, dove le persone sono divise in base al colore del passaporto, sembra quasi naturale che una bambina in Liberia sia costretta ad affrontare più difficoltà, ad avere meno opportunità e a rischiare di morire prima di una bambina nata negli Stati Uniti o in Europa.
La cittadinanza, però, è un tratto distintivo puramente artificiale. La contingenza della nascita, un cavillo della legge o il capriccio di un burocrate possono fare la differenza tra una vita agiata e una vita di stenti. Oggi può capitare che i genitori di un bambino francese siano marocchini o senegalesi, ed essere un cittadino britannico non esclude la possibilità di essere anche keniano, giamaicano o pachistano. I figli di polacchi, albanesi ed egiziani rivendicano i loro diritti davanti ai governi dei loro paesi adottivi, come l’Italia o l’Irlanda. E naturalmente pochi paesi hanno un’identità nazionale tanto fragile quanto quella degli Stati Uniti, dove ogni cittadino ricostruisce il suo albero genealogico alla ricerca di radici in altre nazioni e continenti.
Siamo talmente abituati a questa roulette geografica da non accorgerci di quanto sia moralmente indifendibile la separazione degli abitanti della terra tra ricchi e poveri, fortunati e svantaggiati, vittime e sopravvissuti, il tutto secondo un criterio largamente arbitrario e totalmente fuori dal controllo degli individui. Oggi ci sarebbero le basi economiche per riconsiderare interamente le nostre politiche sull’immigrazione, ed esistono argomenti validi sia a favore che contro la fattibilità di questo cambiamento. Ma come per la schiavitù e per l’apartheid, il nocciolo della questione è di natura morale. Considerato che la cittadinanza non è diversa dall’appartenenza a un club privato con misteriosi criteri di ammissione, dobbiamo chiederci se sia ancora possibile permettere che il colore del passaporto determini il destino di milioni di bambini come Patience.
Siamo così abituati agli ostacoli che devono affrontare bambini come Patience ed Emmanuel che i morti nel Sahara o al largo delle coste di Lampedusa ci sembrano il prezzo da pagare, inevitabile e terribile, per limitare il movimento dei popoli. Dopo 250 anni di nazionalismo aggressivo, la segregazione degli uomini secondo l’appartenenza a un paese ci sembra assodata quanto la divisione del globo in continenti. Ma non si può dimenticare che i limiti all’immigrazione sono una scelta politica, le cui conseguenze ricadono sui meno fortunati.
L’esempio sudafricano
Il filosofo Joseph Carens, professore di scienze politiche all’università di Toronto e autore di The ethics of immigration, paragona l’attuale sistema globale delle restrizioni frontaliere al feudalesimo medievale, in cui il privilegio era un diritto di nascita e la ricchezza veniva spesso ereditata e raramente guadagnata. “Abbiamo costruito un mondo in cui le possibilità di un individuo dipendono soprattutto dal paese in cui nasce”, spiega Carens. “Il pianeta è organizzato in stati molto disuguali tra loro che non possono esistere senza un sistema di frontiere. Noi diamo questa realtà per scontata, ma è il frutto della volontà umana. Certo, nessuno si è seduto a un tavolino per crearla, ma allo stesso tempo non è naturale”.
Non serve tornare al medioevo per trovare un’analogia con il sistema delle frontiere. Sono arrivato alla conclusione che le nostre politiche sull’immigrazione pongono un urgente problema morale. Somigliano molto a una delle più note ingiustizie della nostra storia recente: il tentativo del regime sudafricano di conservare i privilegi razziali nonostante l’opposizione del mondo intero.
L’inizio degli anni sessanta fu un periodo particolarmente tumultuoso nel Sudafrica governato dai bianchi. Le leggi e le usanze che garantivano ai bianchi il dominio sulla maggioranza nera erano duramente criticate in patria e all’estero. L’opinione pubblica si stava rivoltando contro il regime dell’apartheid, e gli Stati Uniti chiesero al governo sudafricano di abbandonare la sua politica di discriminazione razziale. Con il passare del tempo diventò sempre più chiaro che il mondo non aveva più intenzione di accettare l’esistenza di un paese così sfacciatamente diviso tra cittadini di prima e di seconda classe.
Roelof Frederik “Pik” Botha, ministro degli esteri durante il crepuscolo del dominio bianco in Sudafrica, fu uno dei protagonisti di quel periodo. Per gli standard della politica sudafricana dell’epoca, Botha era considerato un liberale, uno dei primi a dire pubblicamente che il paese avrebbe potuto avere un presidente nero (anche se fu subito costretto a ritrattare). Botha si rese conto del vicolo cieco in cui si trovavano i politici dell’epoca. L’apartheid era diventato insostenibile, ma non avevano intenzione di rinunciare ai loro privilegi. Per questo motivo adottarono una soluzione diversa, abolendo la discriminazione più evidente, ma mantenendo tutto il potere sociale, economico e politico.
Il Sudafrica aveva già assegnato alcune terre alla popolazione nativa. Il 13 per cento del paese era destinato alle riserve per gli indigeni, le cosiddette homelands (terre natie), aree dove i neri erano costretti a vivere a meno che non potessero dimostrare di lavorare per i bianchi. Il Natives act del 1952, passato alla storia come Pass laws, prevedeva che i cittadini non bianchi portassero con sé un libretto con nome, indirizzo e una fotografia, se non volevano rischiare l’arresto e la deportazione nelle homelands. Le homelands e i libretti non erano così diversi dagli stati e dai passaporti. All’epoca l’idea non sembrò folle come potrebbe sembrare oggi.
Dopo la seconda guerra mondiale gli imperi coloniali si erano dissolti lasciando il posto a nuovi paesi. Intorno al Sudafrica stavano nascendo nuovi stati. Il Botswana, poco più a nord, formò il suo primo governo nel 1966. Lo Swaziland, a est, dichiarò l’indipendenza dal Regno Unito nel 1968. Il caso più notevole fu la trasformazione del protettorato britannico di Basutoland, una piccola colonia circondata dal territorio sudafricano. Nel 1966 il protettorato abbandonò la bandiera del Regno Unito ed entrò nel club delle nazioni indipendenti con il nome di Regno del Lesotho.
Se un pezzo di terra così piccolo poteva essere considerato un paese indipendente, perché non poteva esserlo anche il 13 per cento del territorio sudafricano destinato alle riserve per la popolazione nativa? “Il sogno era: come liberarci dell’immoralità dell’apartheid?”, ha raccontato Botha. “L’idea cominciò a farsi strada: concediamo l’indipendenza a queste nazioni, lasciamo che abbiano i loro parlamenti, i loro governi, i loro tribunali e i loro giudici. Ogni riserva avrebbe avuto una capitale, un parlamento, un presidente, un primo ministro e un governo. Avrebbero avuto la sovranità e l’indipendenza. Ci sarebbe stata una specie di uguaglianza tra una costellazione di stati sudafricani”.
Il primo territorio a essere riconosciuto indipendente fu il Transkei, un’area rurale popolata degli xhosa che confinava con il Lesotho a nord e con l’oceano Indiano a sud. La nascita della nuova nazione fu celebrata con colpi di pistola, balli tribali e fuochi d’artificio. Ma i festeggiamenti durarono poco. Nella stessa giornata l’assemblea generale della Nazioni Unite respinse con una risoluzione all’unanimità “l’indipendenza” della regione e condannò “la creazione dei bantustan (territori assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano) con l’obiettivo di consolidare le politiche inumane dell’apartheid e la distruzione dell’integrità territoriale del paese per perpetuare il dominio della minoranza bianca e privare la popolazione africana del paese dei suoi diritti inalienabili”.
Per i successivi vent’anni il governo dell’apartheid faticò a mettere in pratica il suo piano e a trasformare le homelands in nazioni, anche perché nessun governo riconobbe la sovranità del Transkei o di qualsiasi altro bantustan. “Avevano il loro aeroporto internazionale, il loro parlamento e i loro tribunali. Stavano costruendo infrastrutture, strade, stadi, ospedali, cliniche e scuole. Ogni stato aveva la sua università. Furono spesi molti soldi”, mi ha detto Botha.
Stesse paure
In cambio dell’autogoverno, la popolazione nera del Sudafrica doveva pagare un prezzo molto elevato: la perdita della nazionalità sudafricana. Nessuno poteva nascondere il fatto che la divisione del paese in stati profondamente diseguali non era un’alternativa all’apartheid ma solo una sua estensione. Steve Biko, l’attivista antiapartheid morto in carcere nel 1977, definì i bantustan “il più grande imbroglio mai inventato da politici bianchi”.
Nella sua autobiografia Nelson Mandela parla del tentativo di “creare un progetto di ‘sviluppo separato’, ovvero un ampliamento dell’apartheid”. I neri potevano avere la loro indipendenza, ma quando si spostarono nelle aree dove c’erano i posti di lavoro dovettero farlo da immigrati. “Il problema era la situazione reale”, ha ammesso Botha. “Il problema della discriminazione razziale non era risolto, quindi il sogno si trasformò presto in un incubo”.
Naturalmente esistono differenze evidenti tra il sistema globale di restrizioni all’immigrazione e il tentativo del Sudafrica di proteggere i privilegi dei bianchi attraverso la divisione del territorio nazionale. Tuttavia resta il fatto che gli architetti di uno dei più ignobili progetti della storia si ispirarono ai confini e ai passaporti. A prescindere dalle intenzioni, la più grande differenza tra i due sistemi è che i sudafricani volevano tracciare nuovi confini e assegnare nuove nazionalità, mentre noi usiamo i confini esistenti.
Un mondo senza barriere non dovrebbe essere impossibile da immaginare. Fino agli anni ottanta dell’ottocento gli Stati Uniti non imponevano limiti all’ingresso di stranieri nel paese. Nessuno controllava visti e passaporti. Le liste degli immigrati erano compilate dalle compagnie di navigazione che trasportavano i nuovi arrivati. Gli unici controlli erano sanitari. Nel 1910 quasi il 15 per cento dei residenti negli Stati Uniti era nato all’estero (oggi è il 13 per cento; in Italia è il 9,5 per cento, di cui quasi un terzo proviene da un altro paese dell’Unione europea).
Le paure e le perplessità manifestate all’epoca sono molto simili a quelle che alimentano oggi il dibattito sull’immigrazione. I politici infiammavano le folle insinuando che il paese sarebbe finito in mano ai tedeschi e ai cattolici irlandesi. Gli imprenditori e i sindacati cercavano di estromettere gli ultimi arrivati dal mercato del lavoro. I giornali temevano che gli immigrati non avrebbero mai imparato l’inglese. Molti dubitavano che gli ebrei, gli irlandesi e gli italiani sarebbero mai diventati veri statunitensi (solo una minoranza si opponeva a questa tesi). Eppure la lingua inglese non è scomparsa, anzi si è arricchita. Gli immigrati si sono integrati e si sono sposati con gli statunitensi, che a loro volta hanno ampliato la loro idea di cosa significa essere americani. Gli Stati Uniti sono entrati nel ventesimo secolo come l’economia più potente del mondo, e questo ha portato benefici tanto a chi era nato in America quanto a chi era arrivato da un altro paese.
Il Sudafrica ci offre un esempio illuminante di come sia possibile colmare fratture economiche e culturali anche molto profonde. Negli anni ottanta era ormai chiaro che nemmeno la divisione del paese in microstati avrebbe salvato i privilegi dei bianchi, e così cominciò la lenta demolizione dell’apartheid. Molti temevano che sarebbe finita male, perché il regime dell’apartheid aveva impedito per anni ai neri di accedere a un’istruzione in grado prepararli a qualcosa che non fossero i lavori meno qualificati. Decenni di repressione brutale avevano creato un clima di profonda sfiducia e ostilità reciproca. I bianchi vivevano in ambienti ricchi circondati da enormi comunità di gente povera, culturalmente diversa, poco istruita e incapace di parlare inglese o afrikaans. Le previsioni per il dopo apartheid erano estremamente negative: guerra razziale, caos economico e collasso dei servizi sociali. Nel 1990 metà dei bianchi dichiarava di temere per la propria vita e quella dei propri familiari.
E invece l’era dell’apartheid si è conclusa senza che il Sudafrica sprofondasse nella guerra civile. L’economia nazionale non è crollata e i bianchi non sono stati perseguitati. I servizi pubblici sono sopravvissuti e non c’è stata alcuna espropriazione violenta delle terre. Nel 1994 la maggioranza nera ha eletto Nelson Mandela alla guida del paese e sotto la sua leadership il Sudafrica ha attuato una politica di stabilità economica. Oggi gli studenti neri vanno a scuola con i bianchi. Politici bianchi e neri lavorano insieme. I dipendenti bianchi ricevono lo stipendio dai loro capi neri.
Nei venti anni trascorsi dall’elezione di Mandela, le condizioni economiche dei sudafricani neri sono migliorate. Il reddito dei neri è aumentato e lo scarto tra le condizioni di vita di neri e bianchi si è ridotto. E sono pochi gli indizi del fatto che la vita della maggioranza nera sia migliorata a scapito della minoranza bianca. Il Sudafrica è ancora afflitto da gravi problemi, molti dei quali sono conseguenze dell’apartheid, ma nel complesso bianchi e neri, poveri e ricchi, vivono meglio rispetto al 1994.
L’elemento più sorprendente della storia dell’apartheid è il parallelo con gli attuali tentativi di limitare l’immigrazione. Secondo i dati raccolti da Michael Clemens, economista dell’organizzazione non governativa Center for global development di Washington, i non bianchi sudafricani erano sei volte più numerosi rispetto ai bianchi, e guadagnavano otto volte di meno.
Oggi il numero di persone che vivono nei paesi a basso e medio reddito è sei volte superiore a quello degli abitanti dei paesi più ricchi, che guadagnano sette volte di più rispetto al resto della popolazione mondiale. Se i numeri hanno un significato, porre fine alla segregazione economica e geografica in Sudafrica – per non parlare di quella politica – è stato più difficile di quanto non sarebbe oggi eliminare le barriere all’immigrazione.
Ci sono infiniti ostacoli di carattere pratico all’idea di lasciare le persone libere di spostarsi nelle aree dove possono trovare lavoro, ma gli ostacoli pratici c’erano anche durante l’apartheid in Sudafrica e all’epoca della schiavitù negli Stati Uniti. Gli ostacoli pratici non possono prevalere sugli imperativi morali.
Il giro della casa
Sei anni dopo il mio incontro con Patience in Liberia, sono andato a Minneapolis. Ho affittato una macchina e ho guidato verso sud attraversando la periferia di Chaska. Un cielo grigio incombeva sulle colline ingiallite. Ho sbagliato strada più di una volta perdendomi tra arterie grandi e poco trafficate, prima di parcheggiare davanti a una tipica villetta a due piani. Arrivato sul portico ho suonato il campanello. Ho sentito un rumore di passi rapidi, poi mi hanno aperto la porta due ragazzine, due sorelle. Una aveva la pelle bianca e i lunghi capelli biondi che avevo visto nell’album fotografico in Liberia. L’altra aveva la pelle nera ed era Patience.
Ellen e Steve Carlson alla fine ce l’hanno fatta. Sono riusciti a portare via la loro figlia adottiva dalla guerra e dalla povertà, catapultandola nella vita della classe media americana. Patience era cresciuta molto dall’ultima volta che l’avevo vista. Gli occhi tristi, le braccia smagrite e i movimenti affaticati avevano lasciato il posto a un’energia frenetica e a un sorriso amichevole.
Ellen mi ha invitato nel salotto dove tutti e quattro abbiamo mangiato un’ottima minestra fatta in casa e una triste torta di zucca che avevo preso io al supermercato. Dopo pranzo Patience e Zoe mi hanno fatto fare il giro della casa mostrandomi la stanza della tv, la stanza dei giocattoli, lo studio di papà (“che presto diventerà una stanza delle armi”, mi ha spiegato Patience) e il loro posto preferito, uno sgabuzzino dal tetto basso ricavato nel sottoscala. “Prima c’erano molte più cose qua dentro, era un caos!”, mi ha confessato Zoe. “Tutti sbattevano la testa”, ha aggiunto Patience. In un angolo le bambine avevano messo le loro foto. “Questa sono io con il costume da leone”, mi ha spiegato Zoe. “Guarda quanto sono carina qui”, le ha fatto eco Patience.
Dopo avermi fatto vedere la casa, Zoe e Patience hanno ricevuto un amico e io sono andato in soggiorno con Ellen: “Essere un genitore senza poter vedere tuo figlio è una cosa innaturale. Ricordo tutto di quella esperienza. Passavano i giorni e mi chiedevo come fosse possibile andare avanti e come potevamo continuare a stare lontani”. Dopo un po’ è arrivato anche Steve e abbiamo bevuto una birra. Dopo la fine della guerra in Liberia i Carlson sono riusciti (con l’aiuto di un senatore) a ottenere un visto statunitense per Patience. Ma la bambina era ormai gravemente denutrita. “A quattro anni pesava appena dieci chili. Per tre mesi non è stata in grado di saltare”, mi ha raccontato Ellen. “Aveva i capelli sottili”, ricordava Steve. “E gialli”, ha aggiunto Ellen.
“Non potevo andare in Liberia”, mi ha spiegato Steve. “Così sono andato in Ghana, ho dormito una notte in albergo, e il giorno dopo sono andato a prendere Patience all’aeroporto. Ho anche rischiato di perdere il volo di ritorno perché quello di Patience era in ritardo. Dovevo superare una fila lunga. La gente è stata molto gentile, tutti mi hanno aiutato anche se ero straniero. Mi hanno fatto passare e ce l’ho fatta per un pelo. Appena mi sono seduto al mio posto l’aereo è decollato. Patience sembrava una bambola. Indossava un piccolo vestito verde menta. L’ho portata in bagno e le ho cambiato il vestito. Non voglio offendere nessuno, probabilmente era il migliore che avevano trovato”.
“Era pelle e ossa”, ha aggiunto Ellen. “Ricordo perfettamente la prima volta che l’ho tenuta tra le braccia. Ho avuto uno slancio materno. Era grande quanto un bambino di un anno”.
Siamo rimasti seduti in silenzio per un po’, poi Ellen ha ripreso a parlare. “Quando vivi un momento come quello, una parte di te pensa: ‘Dobbiamo portare via da lì questi bambini! Quanti possiamo accoglierne?’”.
Patience ha trovato la sua porta d’ingresso nel mondo privilegiato, ma si è lasciata molti bambini alle spalle. A cominciare da Emmanuel, il bambino che guardava l’album di fotografie. L’orfanotrofio dove avevo incontrato Patience ed Emmanuel in seguito si è rivelato qualcosa di molto peggio di quanto avevo immaginato. Nel 2005 un’indagine ha stabilito che il proprietario vendeva il cibo donato dalle organizzazioni umanitarie, costringendo i bambini affamati a nutrirsi di rane e alghe di una palude vicina. Non so cosa sia successo a Emmanuel, se è stato adottato o trasferito in un altro istituto, se è ancora in Liberia o è uno dei tanti che hanno provato ad attraversare il Mediterraneo. L’ultima volta che l’ho visto stavo uscendo dall’orfanotrofio. Lui si è avvicinato a me, e con una voce talmente fioca che quasi non riuscivo a sentirlo mi ha chiesto se potevo dargli un paio di mutande pulite.
Libera circolazione
Oggi esistono barriere di ogni tipo che impediscono a un bambino di un paese come la Liberia di avere una vita come quella di Patience in Minnesota. La vita di un immigrato può essere difficile e molti abitanti dei paesi più poveri del mondo preferirebbero costruirsi una vita nel loro luogo di nascita piuttosto che correre il rischio di trasferirsi in un paese sconosciuto. Ma c’è un ostacolo, in particolare, che non ha ragione di esistere. Forse non potremo regalare a ogni bambino povero una villetta bianca e una tavola piena di cibo, ma possiamo riconsiderare il modo in cui controlliamo l’immigrazione e promettere ai bambini come Emmanuel che quando cresceranno avranno la possibilità di trasferirsi e lavorare dove pensano di avere più possibilità di essere felici, a prescindere dalla loro nazionalità.
A Minneapolis, dopo che Ellen, Steve e io avevamo finito la nostra conversazione, Patience è entrata nel soggiorno. Steve teneva in mano una foto della bambina scattata durante il loro primo giorno insieme. Patience si è fermata a guardarla.
“Ti ricordi dove è stata scattata questa foto?”, le ha chiesto Ellen. “Era l’aeroporto di Amsterdam. Tu e papà eravate arrivati a bordo di un aereo dall’Africa. Avete passato un po’ di tempo in aeroporto e poi avete preso un altro aereo. Ti ricordi qualcosa di quel viaggio?”. “Mi ricordo di aver mangiato il pollo”, ha risposto Patience. “Pollo piccante”, ha precisato Steve. “Io le ho detto: ‘Non mangiare quel pollo, è troppo piccante’. Ma lei aveva già dato il primo morso”. “Si stava trangugiando tutto il pollo!”, ha detto Ellen. “Probabilmente mangiavi molto piccante, lì”, ha detto Steve. Patience ha guardato Ellen e ha detto: “Mamma ho fame, andiamo a prendere un gelato?”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito il 19 giugno 2015 nel numero 1107 di Internazionale, a pagina 17. L’originale era uscito su Deca, con il titolo Homelands.