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Tutti dicono fuck you

Gabriella Giandelli per Internazionale

Questo articolo è stato pubblicato l’8 febbraio 2008 sul numero 730 di Internazionale.

Nel 2003 le parolacce sono diventate argomento di dibattito al congresso degli Stati Uniti dopo la serata dei Golden globe trasmessa dalla Nbc. Mentre riceveva il premio a nome degli U2, un euforico Bono aveva esclamato davanti alle telecamere: “This is really, really fucking brilliant” (è fottutamente meraviglioso). A sorpresa la Federal communications commission (Fcc), l’organismo incaricato, tra le altre cose, di controllare che le trasmissioni radiotelevisive non contengano oscenità, non ha multato la Nbc per aver omesso di coprire il termine fucking con un bip. La Fcc ha giustificato la decisione facendo notare che le sue linee guida definiscono oscenità “il materiale che descrive o rappresenta organi e attività sessuali o escretorie”. Bono, invece, aveva usato la parola come “aggettivo pleonastico per enfatizzare un’esclamazione”. I conservatori erano indignati. Doug Ose, un deputato della California, ha cercato di colmare la lacuna nei regolamenti della Fcc con la proposta di legge più indecente mai esaminata dal congresso: il Clean airwaves act (decreto sull’etere pulito). Se approvata, avrebbe portato al divieto di pronunciare, in qualsiasi trasmissione, parole come shit (merda), piss (piscio), fuck (fottere, cazzo), cunt (fica) e asshole (stronzo). Il testo presentato da Ose indicava anche espressioni come “cock sucker” (ciucciacazzi), “mother fucker” (figlio di puttana) e “ass hole” (buco del culo). Sarebbe stato anche vietato l’uso composto di queste parole ed espressioni, tra loro o con altre parole ed espressioni, oltre a forme grammaticali derivanti da questi termini (compresi verbi, aggettivi, gerundi, participi e infiniti).

L’episodio rivela uno dei tanti paradossi legati alle parolacce. Quando sono usate in discorsi di carattere politico, è come se vivessimo in un mondo utopico che garantisce la massima libertà. A tarda notte i comici possono parlare dei potenti dicendo volgarità che nei secoli scorsi avrebbero portato al taglio della lingua o a cose peggiori. Ma quando i termini usati riguardano l’accoppiamento e le escrezioni, il governo ha ancora il potere di stabilire cosa è consentito dire in pubblico.

Le parolacce sollevano molte altre perplessità, di tipo linguistico, neurobiologico, letterario e politico. La prima è quella al centro del dibattito scatenato da Bono: la loro classificazione sintattica. Nella sua ignorante proposta di legge, Ose non solo sbagliava a scrivere cocksucker, motherfucker e asshole, e le definiva erroneamente “espressioni”, ma non riusciva neanche a colmare il vuoto legislativo. Il Clean airwaves act partiva dal presupposto che fucking fosse un aggettivo participiale (fottuto). Non è così. Nel caso di un vero aggettivo, come lazy (pigro), si può dire sia “drown the lazy cat” (annega il gatto pigro) sia “drown the cat which is lazy” (annega il gatto che è pigro). Ma se al posto di lazy usassimo fucking, avremmo “annega quel fottuto gatto” e “annega quel gatto che sta fottendo”.

Se dovessimo stabilire quale parte del discorso è il fucking di fucking brilliant, diremmo che è un avverbio, perché modifica un aggettivo. E solo gli avverbi possono farlo, come in “veramente brutto” o “molto carino”. Ma la categoria degli avverbi è proprio quella che Ose ha dimenticato di includere nella sua lista. Inoltre moltissimi rafforzativi pleonastici non sono neanche veri avverbi. Secondo uno studio, in inglese si può dire “that’s too fucking bad”, ma non “that’s too very bad” (è un troppo grande peccato). Come fa notare il linguista Geoffrey Nunberg, possiamo immaginare uno scambio del tipo: “Quant’è stato interessante?”, “Molto”. Ma non sentiremo mai rispondere: “Fottutamente”.

La decisione della Fcc rimanda a un altro mistero legato al linguaggio scurrile: l’incredibile numero di modi in cui lo usiamo. C’è l’imprecazione catartica, come quella che ci sfugge quando ci tagliamo un dito con il coltello. Ci sono le imprecazioni che lanciamo a chi ci taglia la strada nel traffico. Ci sono i termini volgari per gli oggetti e le attività di ogni giorno. Ci sono espressioni in cui si usano parole volgari in senso metaforico, come snafu, l’acronimo diffuso negli ambienti militari che sta per “situation normal: all fucked up” (situazione normale: tutto a puttane). E poi ci sono le interiezioni che condiscono i discorsi dei soldati, degli adolescenti e delle rockstar irlandesi.

Ma forse il mistero più grande è capire perché i politici, i direttori dei giornali e la gente se ne preoccupino tanto. Il rifiuto e la repulsione suscitati dalle parolacce non sono dovuti ai concetti in sé, perché gli organi e le attività a cui si riferiscono hanno anche una serie di sinonimi più eleganti. E non sono dovuti neanche al suono delle parole, che spesso hanno rispettabili omonimi usati per indicare animali, azioni e addirittura persone. Molti sono convinti che la volgarità corrompa le persone, soprattutto i giovani, e continuano a sostenere questa teoria anche se si tratta di parole conosciute da tutti, compresa la maggior parte dei bambini. Nessuno, inoltre, ci ha mai spiegato come il semplice ascolto di una parola possa corrompere la nostra morale. Gli scrittori progressisti hanno sottolineato questa contraddizione per provare l’assurdità dei tabù linguistici. Un vero moralista, affermano, dovrebbe considerare oscene la violenza e la diseguaglianza, non la sessualità e le escrezioni. Eppure negli ultimi trent’anni molti progressisti hanno creato nuovi tabù, come quello che circonda la parola negro e tutte le allusioni disinvolte al desiderio o all’attrazione sessuale. Quindi anche le persone che prendono in giro i puritani possono sentirsi gravemente offese a causa della loro concezione di linguaggio volgare. Il problema è: perché?

Lo strano potere emotivo delle parolacce e la presenza di tabù linguistici in tutte le culture fanno pensare che le parole tabù agiscano sulle parti più profonde e antiche del nostro cervello. In generale le parole non hanno solo una denotazione, ma anche una connotazione, cioè una coloritura emotiva distinta dal significato letterale del termine. Provate a contrapporre, per esempio, ostinato a testone oppure snello a scheletrico. Un caso estremo è la differenza tra una parola tabù e i suoi sinonimi più forbiti: merda e feci, fica e vagina, scopare e fare l’amore.

Sistemi interconnessi
Le parolacce provocano una reazione diversa da quella dei loro sinonimi anche perché le connotazioni e le denotazioni sono archiviate in parti diverse del cervello. Quello dei mammiferi contiene il sistema limbico, un’antica rete neuronale che regola le motivazioni e le emozioni, e la neocorteccia, la superficie grinzosa del cervello che si è sviluppata durante l’evoluzione ed è la sede della percezione, della conoscenza, della ragione e della progettazione. I due sistemi sono interconnessi e lavorano insieme, ma è probabile che le denotazioni delle parole siano concentrate nella neocorteccia, soprattutto nell’emisfero sinistro. Le connotazioni, invece, sarebbero sparse nelle connessioni tra la neocorteccia e il sistema limbico, soprattutto nell’emisfero destro. Si sospetta che all’interno del sistema limbico sia coinvolta l’amigdala, un organo a forma di mandorla sepolto sotto entrambi i lobi temporali (uno per ogni emisfero), che contribuisce a conferire emozioni ai ricordi. Una scimmia a cui sono state asportate le amigdale può imparare a riconoscere una nuova forma, come un triangolo a strisce, ma le riesce difficile ricordare che quella forma preannuncia un evento spiacevole come la scossa elettrica. Negli esseri umani l’amigdala “si accende” (cioè mostra un’aumentata attività metabolica durante le scansioni cerebrali) quando una persona vede una faccia arrabbiata o sente un termine sgradevole, soprattutto una parola tabù.

La reazione è non solo emotiva, ma anche involontaria. Quando sentiamo o leggiamo una parola, non riusciamo a trattarla come uno scarabocchio o un rumore, ma controlliamo automaticamente la nostra memoria e reagiamo al suo significato, connotazioni comprese. Una dimostrazione classica è l’effetto Stroop, trattato in più di quattromila saggi e spiegato in tutti i manuali d’introduzione alla psicologia. Si chiede a un gruppo di persone di guardare delle sequenze di lettere e di dire ad alta voce di che colore è l’inchiostro con cui è stampata ogni sequenza. Provate con questa lista, dicendo rosso, blu o verde per ogni parola da sinistra a destra:

Facile. Ma questa è molto più difficile:

Il motivo è che per un adulto alfabetizzato leggere una parola è una capacità così radicata da essere diventata vincolante: non potete “disattivare” il processo neanche quando cercate di non leggere le parole e di concentrarvi solo sul colore dell’inchiostro. Quando usano l’inchiostro del colore che corrisponde alla parola, gli autori dell’esperimento facilitano la lettura. Se invece usano un altro colore, la rallentano. Una cosa simile succede quando ascoltiamo. Provate a dire di che colore è l’inchiostro con cui sono scritte queste parole:

Lo psicologo Don Mackay ha condotto quest’esperimento scoprendo che le persone rallentano involontariamente appena i loro occhi si posano su ognuna di queste parole. La conclusione è che chi scrive o parla può usare una parola tabù per provocare una reazione emotiva nel pubblico anche contro la sua volontà. Grazie alla natura automatica della percezione linguistica, una parola tabù cattura la nostra attenzione e ci costringe a pensare alle sue connotazioni spiacevoli. Questo ci rende tutti soggetti a una sorta di aggressione mentale ogni volta che siamo a portata d’orecchio di qualcuno che parla. è come se fossimo legati a una sedia e in qualsiasi momento potesse arrivarci un pugno o una scossa elettrica.

In inglese e in molte altre lingue, la radice storica delle parolacce è, strano a dirsi, la religione

Questo, a sua volta, solleva il problema di quali concetti abbiano una carica emotiva tale da rendere tabù le parole che li esprimono. In inglese e in molte altre lingue, la radice storica delle parolacce è, strano a dirsi, la religione. Lo capiamo dal secondo comandamento (non nominare il nome di Dio invano), dalla popolarità di imprecazioni come diavolo, dannazione, Dio e Cristo, e da molti termini usati per definire il linguaggio tabù: empietà (tutto ciò che non è sacro), blasfemia (letteralmente “cattivo linguaggio”, ma in pratica mancanza di rispetto nei confronti di una divinità), imprecazione, maledizione e giuramenti, in origine legati all’invocazione a una divinità o a uno dei suoi simboli.

Ormai nei paesi di lingua inglese le imprecazioni religiose non turbano nessuno. Sono lontani i tempi in cui gli spettatori si scandalizzavano quando Rhett Butler in Via col vento diceva: “Frankly, my dear, I don’t give a damn” (in italiano è stato tradotto “francamente, mia cara, me ne infischio”; in inglese la frase suonava blasfema perché damn, dannazione, è un termine religioso). Oggi solo un bigotto all’antica si scandalizza per una cosa del genere. La perdita di mordente delle parole che sfidano i tabù religiosi è un’ovvia conseguenza della secolarizzazione della cultura occidentale. Come faceva notare lo scrittore G.K. Chesterton, “la blasfemia non può sopravvivere alla religione stessa. Se qualcuno ne dubita, provi a bestemmiare Odino”.

Per capire l’irriverenza religiosa, quindi, dobbiamo metterci nei panni dei nostri antenati, per i quali Dio e il Diavolo erano presenze reali. Supponiamo che dobbiate fare una promessa. Avete bisogno di chiedere in prestito dei soldi e dovete impegnarvi a restituirli. Perché mai la persona con cui v’impegnate dovrebbe credervi, sapendo che rimangiarvi la promessa potrebbe andare a vostro vantaggio? L’unico sistema è mettervi in condizione di subire un eventuale castigo, una punizione così certa e severa che non vi farebbe mai tirare indietro. In questo modo l’altro non dovrà fidarsi solo della vostra parola, ma potrà fare conto sul vostro stesso interesse. Oggi garantiamo le promesse attraverso dei contratti che prevedono una penalità a nostro carico se non manteniamo l’impegno. Quando compriamo una casa, firmiamo un’ipoteca, con cui autorizziamo la banca a riprendersi l’immobile se non restituiamo il prestito. Ma quando ancora non potevamo contare su questo strumento legale e commerciale, dovevamo metterci in posizione di svantaggio da soli.

I bambini inglesi giurano ancora dicendo: “I hope to die if I tell a lie” (che io possa morire se dico una bugia). Un tempo gli adulti facevano la stessa cosa invocando l’ira divina: “May God strike me dead if I’m lying” (che Dio mi fulmini se sto mentendo) o varianti come “God is my witness” (Dio m’è testimone), “blow me down!” (che io possa sprofondare all’inferno) e “God blind me!”(che Dio mi accechi). Quest’ultima ha dato origine all’imprecazione blimey (accidenti).

Una divinità permalosa
Questi giuramenti, naturalmente, erano più credibili in un’epoca in cui le persone erano convinte che Dio ascoltasse le loro suppliche e avesse il potere di esaudirle. Ma ancora oggi chi testimonia in un tribunale americano deve giurare sulla Bibbia, come se un atto di spergiuro sfuggito al sistema legale potesse essere punito da una divinità permalosa e con l’abitudine di origliare. Ma anche se nessuno pensa che abbiano davvero il potere di attirare l’ira divina su uno spergiuro, queste formule indicano una distinzione tra promettere qualcosa di poco rilevante e impegnarsi solennemente a fare qualcosa di più serio. Oggi le imprecazioni religiose hanno perso buona parte della loro carica emotiva, ma il meccanismo psicologico non è cambiato. Nessun genitore direbbe mai a cuor leggero: “Lo giuro sulla vita di mio figlio”. L’idea di uccidere un figlio per ottenere un qualsiasi vantaggio non è semplicemente spiacevole, è impensabile. E ogni neurone del nostro cervello è programmato per respingerla.

L’impossibilità di pensare certe cose è alla base del concetto di tabù ed è quello che ci impedisce di giurare su qualcosa di sacro, che si tratti di un simbolo religioso o della vita di un bambino. E grazie alla natura automatica del processo verbale, quelle stesse parole sacre che garantiscono una promessa possono essere usate per attirare l’attenzione, scioccare o infliggere dolore fisico a chi ascolta.

Da quando la secolarizzazione ha reso meno potenti le imprecazioni religiose, le persone più creative le hanno sostituite con parole che hanno lo stesso impatto emotivo sulla sensibilità contemporanea. Questo spiega perché le espressioni tabù possono avere una sintassi e una semantica così sconcertanti. Facciamo un esempio. Perché le persone usano un’espressione sgrammaticata come fuck you (vaffanculo)? E perché nessuno sa cosa significa esattamente? Qualcuno, infatti, pensa che significhi “fottiti”, altri “va a prenderlo in culo”, altri ancora “t’inculo”. Ma nessuna delle interpretazioni è convincente. La spiegazione più probabile è che nei paesi di lingua inglese queste espressioni sgrammaticate sono state imprecazioni religiose più comprensibili nel periodo di transizione dalla fase religiosa a quella sessuale e scatologica: “Who (in) the hell are you?” (chi diavolo sei?) è diventato “Who the fuck are you?” (chi cazzo sei?); “I don’t give a damn” (non me ne frega niente) è diventato “I don’t give a fuck” o “I don’t give a shit”(non me ne frega un cazzo); “damn you!” (va al diavolo) è diventato “fuck you!”(vaffanculo).

Ma perché sono proprio le parole che esprimono questi particolari concetti ad aver riempito il vuoto? Perché i termini che indicano i fluidi corporei, la loro escrezione e gli orifizi sono diventati tabù? Shit (merda), piss (piscio) e asshole, per citarne qualcuna, sono ancora impronunciabili in tv e impubblicabili sulla maggior parte dei giornali. Il New York Times, per esempio, cita il best seller del filosofo Harry Frankfurt On bullshit (Sulle stronzate) con il titolo On bull****.

In genere l’accettabilità delle parole tabù è collegata solo vagamente all’accettabilità dell’oggetto a cui si riferiscono. Ma nel caso dei fluidi corporei la correlazione è particolarmente stretta. Come hanno notato i linguisti Keith Allan e Kate Burridge, shit è meno accettabile di piss, a sua volta peggio di fart (scoreggia), che è meno accettabile di snot (moccio), a sua volta meno accettabile di spit (sputo), che in realtà non è affatto tabù. Mostrare queste escrezioni in pubblico rispetta esattamente lo stesso ordine di accettabilità. I fluidi corporei hanno una tale carica emotiva che compaiono nel voodoo, nella stregoneria e in altri tipi di magia in diverse culture del mondo.

Molti studiosi si sono chiesti perché i fluidi e le parole che li definiscono provochino disgusto. In fondo le escrezioni fanno parte della vita umana. Secondo i biologi Valerie Curtis e Adam Biran, non è un caso se le sostanze più disgustose sono anche le maggiori portatrici di infezioni. Le feci sono il mezzo di trasmissione di virus, batteri e protozoi che causano almeno venti tipi di malattie intestinali, oltre all’ascaridiosi, all’epatite A ed E, alla polio, all’amebiasi, all’anchilostomiasi, all’ossuriasi, alla trichiuriasi, al colera e al tetano. Anche il sangue, il vomito, il muco, il pus e i fluidi sessuali sono eccellenti veicoli di agenti patogeni. La componente più forte della reazione di disgusto è il desiderio di non ingoiare o toccare queste sostanze pericolose, ma è disgustoso anche solo pensare ai fluidi e alle parti del corpo da cui escono. E a causa dell’involontarietà della percezione linguistica, è spiacevole anche sentire le parole usate per nominarli.

Qualcuno si è chiesto perché la parola cunt debba essere tabù. Non è solo la versione impubblicabile di vagina, ma in America è l’offesa peggiore per una donna. Si potrebbe pensare che in un mondo dominato dagli uomini la vagina dovrebbe essere venerata, non usata come insulto. D’altronde si dice che dal momento in cui esce dalla vagina, un maschio passa il resto della vita a cercare di rientrarci. La cosa diventa meno misteriosa se si pensa alle connotazioni del termine quando ancora non esistevano gli assorbenti interni, la carta igienica, i bagni regolari e i fungicidi.

Imprecazione sessuale
L’altra principale fonte di parole tabù è il sesso. A partire dagli anni sessanta molti pensatori progressisti hanno cominciato a considerare questi tabù assolutamente ridicoli. Secondo loro, il sesso è una fonte di piacere reciproco e dovrebbe essere liberato da qualsiasi marchio d’infamia. La pruderie nei confronti del linguaggio sessuale è solo superstizione, è un anacronismo, forse una forma di rancore (pensiamo alla definizione di puritanesimo di H.L. Mencken: “L’insopportabile paura che qualcuno, da qualche parte, possa essere felice”).

Il comico Lenny Bruce rimaneva perplesso davanti all’imprecazione sessuale più comune: fuck you. In un monologo diceva: “Qual è la cosa peggiore che si possa dire a qualcuno? ‘Fuck you’. È molto strano, perché se io volessi davvero ferire una persona, le direi di ‘non andare a farti fottere’. Farsi fottere è bello! ‘Ciao, mamma, sono io. Sì, sono appena tornato. A proposito, va a farti fottere, mamma! Dico sul serio. Papà è in casa? Va a farti fottere anche tu, papà!’”.

La perplessità nasce in parte dalla strana sintassi di fuck you che, come abbiamo visto, non significa “fai sesso”. Ma deriva anche dal fatto che oggi non ci rendiamo conto di quanto la sessualità sia sovversiva nel complesso dell’esperienza umana. Immaginate due adulti consenzienti che hanno fatto sesso. Si sono semplicemente divertiti? Non è detto. Uno dei due può aver visto quell’atto come l’inizio di un rapporto che durerà tutta la vita, mentre l’altro potrebbe averlo visto come una toccata e fuga. Uno potrebbe aver trasmesso una malattia all’altro. Potrebbe essere stato concepito un bambino a cui non si era minimamente pensato nell’impeto della passione. Se i due sono parenti, il bambino potrebbe ereditare due copie di un pericoloso gene recessivo e diventare portatore di un difetto genetico. Dietro le quinte potrebbero esserci dei rivali che morirebbero di gelosia se scoprissero cosa è successo, o un marito tradito che rischia di allevare il figlio di un altro, o una moglie ingannata che rischia di perdere il sostegno per i suoi figli. La famiglia potrebbe aver fatto dei progetti matrimoniali per uno dei due, che implicano forti somme di denaro o un’importante alleanza con un’altra famiglia. I due partner potrebbero non essere entrambi adulti o entrambi consenzienti.

Il sesso comporta una serie di rischi: lo sfruttamento, la malattia, l’illegittimità, l’incesto, la gelosia, la violenza familiare, il tradimento, l’abbandono, le faide, la violenza sui bambini e lo stupro. Tutti questi rischi esistono da molto tempo e hanno lasciato il segno sulle nostre abitudini e sulle nostre emozioni. Spesso non si pensa al sesso in modo spensierato, ma con preoccupazione. Le parole legate al sesso possono avere una carica emotiva ancora maggiore perché, oltre a evocare quei pensieri complessi, ne implicano la condivisione tra due persone. Quei pensieri, inoltre, sono “pubblicamente” condivisi: ognuno dei due partner sa che l’altro ha riflettuto sul sesso. E l’impossibilità di negarlo rende ancora più complessa la comunicazione.

È stata la psicologia evoluzionistica a individuare i conflitti d’interesse insiti nella sessualità umana. E alcuni riguardano proprio il piano linguistico. Chi parla di sesso in modo disinvolto fa capire che lo considera un’attività qualsiasi, come giocare a tennis o collezionare francobolli. Ed è possibile che in quel momento la coppia la pensi così. Ma le sue implicazioni a lungo termine possono coinvolgere una cerchia più ampia di persone. I genitori e altri parenti anziani possono temere che vengano ostacolati i loro progetti familiari. La comunità può essere preoccupata per gli eventuali figli illegittimi e per la competizione, a volte sfrenata, che accompagna la libertà sessuale.

L’ideale del sesso come unione sacra tra due persone monogame sarà antiquato e forse poco realistico, ma è senza dubbio molto comodo per gli anziani di una famiglia e di una società. Non è insolito che nascano contrasti tra gli individui e i guardiani della comunità a proposito del sesso occasionale (accompagnati dall’ipocrisia dei guardiani quando si tratta delle loro avventure sessuali).

In media gli uomini dicono più parolacce e le donne ritengono degradanti molti termini sessuali tabù

Ma c’è un altro conflitto d’interesse che divide i due sessi: a ogni atto riproduttivo le femmine rischiano un lungo periodo di gravidanza e di allattamento, mentre i maschi possono cavarsela con qualche minuto di sesso. Un maschio può avere una progenie più numerosa se si accoppia con molte femmine, mentre una femmina non avrà più figli se si accoppia con molti maschi (ma i suoi figli vivranno meglio se sceglie un compagno disposto a investire su di loro o in grado di trasmettergli geni migliori). Non c’è da sorprendersi, quindi, se in tutte le culture i maschi sono più ansiosi di avere rapporti sessuali, anche occasionali, e più propensi a sedurre, ingannare o usare la forza per ottenerli. A parità di condizioni il sesso occasionale è tutto a vantaggio dei maschi, sia dal punto di vista genetico sia da quello emotivo. È probabile quindi che si riscontri la stessa asimmetria quando si parla di sesso. E in effetti è così: in media gli uomini dicono più parolacce e le donne ritengono degradanti molti termini sessuali tabù. Questo spiega il vecchio divieto di dire parolacce “in un ambiente misto”.

Il diverso grado di tolleranza verso il linguaggio sessuale può sembrare un ritorno al vittorianesimo. Ma una conseguenza imprevista della seconda ondata di femminismo degli anni settanta è stata una rinnovata sensibilità nei confronti delle parolacce, che si è affiancata alla campagna contro la pornografia.
All’epoca molte università e aziende cominciarono a pubblicare norme sulle molestie sessuali, tra cui il divieto di fare battute a sfondo sessuale. La scrittrice femminista Andrea Dworkin collega esplicitamente il linguaggio scurrile
all’oppressione delle donne: “Fuck significa che il maschio agisce su qualcuno che ha meno potere di lui. Questo giudizio è talmente radicato, così implicito nell’atto stesso, che la persona che lo subisce è automaticamente degradata”.

Anche se oggi la gente fa sesso e ne parla con più leggerezza rispetto al passato, l’argomento è ancora tabù. Molte persone non si accoppiano certo in pubblico, non si scambiano i partner alla fine di una cena, non hanno rapporti sessuali con i loro fratelli e i loro figli, né offrono apertamente favori in cambio di prestazioni sessuali. Nonostante la rivoluzione sessuale non siamo ancora arrivati a “esplorare appieno la nostra sessualità”, e questo significa che le persone continuano ad alzare barriere nella loro mente per bloccare certi pensieri. Il linguaggio del sesso può farle vacillare.

Questo ci riporta all’episodio di Bono. Una comprensione più profonda della storia, della psicologia, della neurobiologia e del linguaggio volgare può aiutarci a scegliere tra i divieti del Clean airwaves act, i cavilli della Fcc e la scurrilità di Lenny Bruce? Penso che la libertà di parola sia il fondamento della democrazia e che non rientri tra i compiti dello stato punire le persone che usano certi vocaboli o permettere ad altre di farlo. D’altra parte, i mezzi d’informazione hanno il potere di diffondere uno stile – condizionato dal gusto corrente e dalle esigenze del mercato – privo delle parole che il pubblico non vuole sentire. In altri termini: se un uomo di spettacolo dice fucking brilliant non sono affari dello stato; ma se qualcuno non ha voglia di spiegare ai suoi figli cos’è un blow job (pompino), ci dev’essere una tv che non lo costringe a farlo.

E nella sfera privata? Esistono delle linee guida che possono indicarci quando scoraggiare, tollerare o accettare di buon grado l’irriverenza? Spesso il linguaggio è stato definito un’arma da usare con cautela. Il denominatore comune di tutte le parole tabù è che impongono a qualcuno un pensiero sgradevole. Quindi è giusto chiedersi se, quando le usiamo, vogliamo davvero che chi ci ascolta pensi agli escrementi, all’urina o al sesso coatto. Anche nella sua forma più blanda, quando vogliamo solo mantenere viva l’attenzione dell’interlocutore, l’uso disinvolto di imprecazioni può essere vissuto come una gomitata nelle costole. È un fastidio per chi sente, mentre per chi parla è un po’ come ammettere di non conoscere un altro modo per farsi ascoltare. La cosa è ancora più criticabile in uno scrittore, che ha la possibilità di scegliere tra migliaia di parole.

Ma è anche giusto chiedersi se i tabù linguistici siano sempre una cosa negativa. Perché ci sentiamo offesi – o perché dovremmo sentirci offesi – se qualcuno chiama un afroamericano nigger (negro), una donna cunt o un ebreo fucking jew (fottuto giudeo)? Credo che il fastidio derivi dalla natura del riconoscimento linguistico e dalla comprensione delle connotazioni di una parola. Immagino che non sia possibile sentire parole come nigger, cunt o fucking senza pensare a quello che significano per una comunità implicita di persone e alle emozioni che suscitano. Quando sentiamo la parola nigger, per un momento contempliamo l’idea che ci sia qualcosa di spregevole nell’essere afroamericani e quindi ci sentiamo complici di una comunità che ha sintetizzato quel giudizio in una parola. Solo a sentirla abbiamo l’impressione che la nostra moralità venga corrosa. Questo non significa che alcune parole dovrebbero essere vietate, ma semplicemente che dovremmo prevedere e capire l’effetto che possono avere su chi le ascolta.

C’è poi un altro fatto su cui riflettere: perché le generazioni precedenti ci hanno lasciato in eredità un linguaggio che tratta certi argomenti con circospezione e pudore? I libertari degli anni sessanta erano convinti che i tabù sul linguaggio sessuale fossero inutili e dannosi. Sostenevano che togliere il marchio del disonore alla sessualità avrebbe permesso di eliminare la vergogna e l’ignoranza e quindi ridotto le malattie, le nascite illegittime e gli altri rischi legati al sesso. Si sbagliavano. Dai primi anni sessanta il linguaggio sessuale è diventato più diffuso, ma si è verificato anche un aumento dei figli illegittimi, delle malattie a trasmissione sessuale, degli stupri e di alcuni effetti secondari della competizione sessuale, come l’anoressia per le ragazze e il bullismo per i ragazzi. Anche se non è possibile stabilire esattamente le cause e gli effetti, questi cambiamenti sono tutti legati alla diminuzione del timore e dello sgomento che accompagnavano i pensieri sul sesso e ne facevano un tabù parlarne.

Carica emotiva
Questi sono alcuni dei motivi per cui sarebbe opportuno pensarci bene prima di liberalizzare del tutto le parolacce. E c’è un’ultima ragione: se l’abuso di parole tabù finirà per attenuarne la carica emotiva, resteremo privi di uno strumento linguistico che a volte può essere molto efficace. E questo mi porta a considerare gli argomenti a favore delle parolacce. Innanzitutto è innegabile il fatto che le persone le usano ogni giorno. Il compito degli scrittori è dare “un’immagine imparziale e vivida della natura umana”, diceva il poeta John Dryden, e questo significa anche riprodurre realisticamente il modo di parlare di un personaggio. Nella sua opera del 1948, Il nudo e il morto, un romanzo realistico sulla seconda guerra mondiale, Norman Mailer scese a compromessi con la sensibilità del tempo facendo usare ai soldati la parola fug. Quando lo conobbe, Dorothy Parker gli disse: “Così lei è l’uomo che non sa scrivere fuck”. Purtroppo il suo perbenismo non è una cosa del passato. Il divieto di usare parolacce in tv trasforma gli artisti e gli storici in bugiardi e priva gli adulti della possibilità di sapere come si vive in mondi lontani dal loro.

Quando sono usate con acume, le parolacce possono essere esilaranti e incisive

Per gli appassionati di questioni linguistiche, le parole volgari non si trovano solo nelle opere di scrittori famosi. Dovremmo applaudire il genio poetico che ci ha dato l’espressione inglese per descrivere il toast alla carne di manzo, “shit on a shingle” (merda sul sasso), o l’invito tutto maschile alla discrezione in materia di sesso “keep your pecker in your pocket” (tieni il tuo uccello in tasca). Tanto di cappello anche a chi ha inventato l’immancabile gara a chi piscia più lontano o espressioni come crock of shit (palla di merda), pussy-whipped (schiavo della fica) e horse’s ass (testa di cazzo).

Il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson aveva un modo tutto suo di definire le persone di cui non si fidava. Di un assistente di John F. Kennedy disse che “non saprebbe versare piscio da uno stivale neanche se le istruzioni fossero scritte sul tacco”. Parlando di Gerald Ford disse che “non riesce a scoreggiare e a masticare una gomma contemporaneamente”. E a proposito di J. Edgar Hoover dichiarò: “Preferirei averlo nella tenda che piscia fuori, piuttosto che fuori mentre piscia dentro”.

Quando sono usate con acume, le parolacce possono essere esilaranti, incisive e straordinariamente efficaci. Più di qualsiasi altra forma di linguaggio, sfruttano al massimo le nostre capacità espressive: il potere combinatorio della sintassi, il fascino evocativo della metafora, il piacere dell’allitterazione, della metrica e della rima, la carica emotiva della nostra aggressività. Coinvolgono tutto il cervello: destro e sinistro, alto e basso, antico e moderno.

Nella commedia La tempesta, Shakespeare, che non era certo estraneo al linguaggio scurrile, fa parlare Calibano per l’intera razza umana quando dice: “Mi hai insegnato a parlare, e ne ho tratto l’unico vantaggio di poter maledire”

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato l’8 febbraio 2008 sul numero 730 di Internazionale. L’originale era apparso su New Republic con il titolo “What the F***?”.

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