La fine dell’università
Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2015 sul numero 1103 di Internazionale.
Qualche anno fa mi trovai a visitare una grande università asiatica, tecnologicamente molto avanzata, in compagnia del suo orgoglioso rettore. In linea con il ruolo, era scortato da due giovani e corpulenti gorilla in completo nero e occhiali da sole, che per quanto ne sapevo potevano nascondere un Kalashnikov sotto la giacca.
Dopo aver toccato toni lirici per magnificare la nuova e scintillante scuola di economia e il modernissimo centro studi di amministrazione aziendale, il rettore fece una pausa per consentirmi di articolare i previsti elogi. Io invece osservai che nel suo campus non sembravano esserci critical studies di nessun tipo. Mi guardò sconcertato, come se gli avessi chiesto quanti dottorati in pole dancing organizzassero ogni anno, e replicò piuttosto seccamente: “Prenderemo nota del suo commento”. Poi tirò fuori dalla tasca un dispositivo tecnologico d’avanguardia, lo aprì e pronunciò alcune brevi parole in coreano, probabilmente “Uccidetelo”. Subito dopo arrivò una limousine lunga quanto un campo da cricket in cui il rettore venne infilato in tutta fretta dai suoi gorilla e portato via. Io seguii con lo sguardo l’automobile che si allontanava, chiedendomi quando sarei stato giustiziato.
Questo succedeva in Corea del Sud, ma sarebbe potuto succedere in qualunque altro luogo del pianeta. Da Città del Capo a Reykjavík, da Sydney a São Paulo, è in corso uno sconvolgimento epocale, paragonabile alla rivoluzione cubana o all’invasione dell’Iraq: la lenta morte dell’università come centro di critica umanistica. Le università, che nel Regno Unito hanno ottocento anni di storia, per tradizione sono ironicamente definite torri d’avorio, e c’è sempre stato qualcosa di vero in quest’accusa. Eppure la distanza che stabiliscono con la società potrebbe rivelarsi un punto di forza, e non solo una debolezza, perché consente di riflettere sui valori, gli obiettivi e gli interessi di un ordine sociale troppo assorto nelle sue azioni pratiche a breve termine per essere capace di autovalutarsi. In tutto il mondo questa distanza critica si sta riducendo fin quasi a scomparire, man mano che le istituzioni dove si sono formati Erasmo da Rotterdam e John Milton, Einstein e i Monty Python capitolano davanti alle spietate priorità del capitalismo globale.
È una realtà in gran parte familiare ai lettori statunitensi. Sono stati Stanford e il Massachusetts institute of technology, dopo tutto, a creare il modello dell’università imprenditoriale. Ma quella che si è affermata nel Regno Unito si potrebbe chiamare un’americanizzazione senza ricchezza, o quanto meno senza la ricchezza dell’istruzione privata nord-americana.
Questo vale anche per quei tradizionali istituti dei ragazzi di buona famiglia, Oxford e Cambridge, i cui college sono sempre stati in qualche misura isolati dalle grandi forze economiche grazie a secoli di ricche donazioni. Qualche anno fa, mi dimisi da una cattedra all’università di Oxford (un evento raro quasi quanto un terremoto a Edimburgo) dopo essermi reso conto che ci si aspettava che fossi più un amministratore delegato che uno studioso.
Lo stato britannico continua a distribuire fondi per la scienza, la medicina, l’ingegneria eccetera, ma ha smesso di destinare risorse significative alle lettere
Nella Oxford di trent’anni prima qualunque professionalità di questo tipo sarebbe stata accolta con patrizio disprezzo. I miei colleghi che si erano davvero presi il disturbo di portare a termine il dottorato a volte preferivano essere chiamati “signore” anziché “dottore”, perché “dottore” suggeriva una forma di fatica indegna di un gentiluomo. Pubblicare libri era ritenuta un’attività piuttosto volgare. Un breve articolo ogni dieci anni o giù di lì sulla sintassi del portoghese o le abitudini alimentari dell’antica Cartagine veniva considerato appena tollerabile. C’era stata un’epoca, in passato, quando i tutor potevano perfino non preoccuparsi di fissare un orario di ricevimento: gli studenti sarebbero semplicemente capitati nelle loro stanze quando venivano colti da una vaga voglia di uno sherry e di una civile chiacchierata su Jane Austen o sulla funzione del pancreas.
Oggi Oxbridge conserva molto del suo ethos collegiale. Sono i professori a decidere come investire il denaro dei college, quali fiori piantare nei loro giardini, quali ritratti appendere nella sala docenti e come spiegare agli studenti perché spendono di più per la cantina dei vini che per la biblioteca. Tutte le decisioni importanti sono prese dagli insegnanti del college in seduta plenaria e tutto – dalle questioni finanziarie e accademiche all’amministrazione quotidiana – viene gestito da comitati di accademici eletti che rispondono all’intero corpo docente. Negli ultimi anni questo eccellente sistema di autogoverno ha dovuto affrontare una serie di sfide centralizzatrici da parte dell’università – quel genere di sfide che hanno portato alla mia uscita di scena – ma nel complesso è rimasto ben saldo. Proprio perché sono per lo più istituzioni premoderne, i college di Oxbridge possono rappresentare in piccolo un modello di democrazia decentrata, e questo malgrado gli odiosi privilegi di cui continuano a godere.
Altrove la situazione è ben diversa. Invece dell’autogoverno degli accademici c’è il dominio della gerarchia, molta burocrazia bizantina, professori associati che sono quasi bestie da soma e vicerettori che si comportano come se gestissero la General Motors. I professori titolari ora sono alti dirigenti e l’aria è densa di discorsi sull’auditing e la contabilità. La considerazione per i libri – questi oggetti primitivi e uggiosamente pretecnologici – è sempre più bassa. Almeno un’università britannica ha limitato il numero di scaffali che i professori possono avere nei loro uffici, al fine di scoraggiare “le biblioteche personali”. I cestini per la carta straccia stanno diventando rari come gli intellettuali del Tea party, perché la carta ormai è fuori moda.
Amministratori filistei tappezzano il campus di loghi insensati ed emanano i loro editti in una prosa barbarica e semianalfabeta. Un vicerettore dell’Irlanda del Nord ha requisito l’unica sala comune che rimaneva nel campus, una sala comune condivisa da docenti e studenti, per farne una camera da pranzo privata in cui intrattenere alti papaveri e imprenditori. Quando gli studenti hanno occupato la sala in segno di protesta, il vicerettore ha ordinato alle guardie di sicurezza di smantellare gli unici due bagni che erano nelle immediate vicinanze. Anche in Gran Bretagna i vicerettori stanno distruggendo le loro università da anni, ma raramente così alla lettera.
Nel bel mezzo di questa débâcle, sono soprattutto le discipline umanistiche a ritrovarsi spalle al muro. Lo stato britannico continua a distribuire fondi per la scienza, la medicina, l’ingegneria eccetera, ma ha smesso di destinare risorse significative alle lettere. Non è escluso che, se la situazione non cambia, nei prossimi anni interi dipartimenti umanistici verranno chiusi. E anche se i dipartimenti di inglese riuscissero a sopravvivere, potrebbero servire soltanto a insegnare agli studenti di economia l’uso del punto e virgola, il che non è esattamente quello che avevano in mente Northrop Frye e Lionel Trilling.
I dipartimenti umanistici ormai sono costretti a finanziarsi soprattutto con le rette degli studenti, e questo significa che le istituzioni più piccole, obbligate a contare quasi esclusivamente su questa fonte di reddito, di fatto sono state privatizzate. L’università privata, a cui il Regno Unito si è giustamente opposto per molto tempo, sta procedendo in silenzio ma a grandi passi. Inoltre il governo del primo ministro David Cameron ha anche voluto una brusca impennata delle rette delle università pubbliche. E gli studenti, gravati dai debiti, comprensibilmente pretendono alti standard d’insegnamento e un trattamento più personalizzato in cambio dei loro soldi.
Per giunta, da qualche tempo nelle università britanniche insegnare è una questione meno vitale della ricerca. È la ricerca a portare soldi, non i corsi sull’espressionismo o la riforma protestante. Lo stato periodicamente svolge un’approfondita ispezione di ogni università del paese, misurando meticolosamente quanta ricerca produce. È su questa base che vengono concessi i fondi. Sono quindi diminuiti gli incentivi per l’insegnamento, e gli accademici hanno tutte le ragioni per dedicarsi alla produzione fine a se stessa sfornando articoli del tutto inutili, fondando superflue riviste online, richiedendo borse di studio esterne anche se non sono necessarie, e passando piacevolmente il tempo ad allungare i loro curriculum.
In ogni caso l’enorme aumento della burocrazia nell’istruzione superiore britannica, dovuto alla fiorente diffusione dell’ideologia manageriale e alle implacabili richieste della valutazione statale, fa sì che gli accademici abbiano ben poco tempo per preparare le loro lezioni anche quando sembra che ne valga la pena. Gli ispettori di stato assegnano parecchi punti agli articoli costellati di note a piè di pagina, ma ben pochi o nessuno ai libri di testo campioni d’incasso che si rivolgono agli studenti e ai comuni lettori. E gli accademici aumenterebbero il prestigio della loro istituzione chiedendo congedi temporanei per portare avanti le loro ricerche, togliendo tempo all’insegnamento.
Accrescerebbero ancora di più le loro risorse se abbandonassero completamente gli studi per unirsi a un circo, risparmiando ai loro padroni finanziari un salario pagato assai controvoglia e consentendo ai burocrati di distribuire il loro lavoro a un corpo docente già oberato. Sanno bene quanto le istituzioni di cui fanno parte sarebbero entusiaste se li vedessero andare via, fatta eccezione per qualche nome conosciuto che riesce ad attirare molti clienti. Non c’è penuria, in effetti, di docenti disposti ad accettare una pensione anticipata dal momento che l’accademia britannica, fino ad alcuni decenni fa un posto piacevole in cui lavorare, è diventata sgradevolissima per molti dei suoi dipendenti. Che, con un ulteriore affondo del coltello nella piaga, stanno anche per vedersi tagliare le pensioni.
Come una stazione di servizio
Così come i professori universitari vengono trasformati in manager, gli studenti diventano consumatori. Le università si azzuffano in un parapiglia indegno per assicurarsi le entrate garantite da quelle rette. E una volta che i clienti sono al sicuro all’interno dei cancelli, ci sono pressioni sui professori perché non li boccino, cosa che metterebbe a repentaglio le rette. L’idea generale è che se lo studente non passa gli esami la colpa è del professore, un po’ come un ospedale in cui ogni morte viene imputata al personale medico. Un risultato di questa corsa accanita al portafoglio degli studenti è l’aumento dei corsi fatti per andare incontro a qualunque cosa sia di moda tra i ventenni. Nella mia disciplina, la letteratura inglese, questo significa i vampiri invece dei vittoriani, la sessualità invece di Shelley, le fanzine invece di Foucault, il mondo contemporaneo invece di quello medioevale. È così che forze politiche ed economiche riescono a decidere i programmi di studio. Qualunque dipartimento di inglese che concentrasse le sue energie sulla letteratura anglosassone o il diciottesimo secolo si taglierebbe la gola da solo.
Affamate di rette, alcune università oggi permettono agli studenti con una laurea mediocre di andare avanti con la specializzazione, mentre gli studenti stranieri (che di solito sono costretti a pagare cifre molto salate) possono trovarsi a cominciare un dottorato d’inglese con una scarsa padronanza della lingua. Dopo aver a lungo disprezzato la scrittura creativa come un volgare passatempo americano, i dipartimenti di inglese ora sono alla disperata ricerca di romanzieri minori e poeti falliti per attirare orde scribacchianti di potenziali Pynchon, arraffando le loro rette nella totale e cinica consapevolezza che le possibilità che un editore londinese accetti di pubblicare un primo romanzo o una prima raccolta di poesie sono probabilmente inferiori a quelle di svegliarsi scoprendo di essere stati trasformati in un gigantesco scarafaggio.
L’istruzione dovrebbe essere sensibile ai bisogni della società. Ma questo non vuol dire considerarla una stazione di servizio per il neocapitalismo. Di fatto, i bisogni della società si affronterebbero molto meglio se si sfidasse questo modello alienato di apprendimento. Le università medioevali servivano magnificamente la società, però lo facevano producendo pastori, avvocati, teologi e funzionari amministrativi che contribuivano a sostenere la chiesa e lo stato, e che non disprezzavano qualunque forma di attività intellettuale che non riusciva a far soldi in fretta.
Ma i tempi sono cambiati. Secondo lo stato britannico, tutta la ricerca accademica finanziata con fondi pubblici deve considerarsi parte della cosiddetta economia della conoscenza, con un impatto quantificabile sulla società. Tale impatto è un po’ più facile da misurare per gli ingegneri aeronautici che per gli studiosi di storia antica, per i farmacisti più che per i fenomenologi. I soggetti che non riescono a far arrivare ricche borse di ricerca dall’industria privata o che non arruolano molti studenti sprofondano in uno stato di crisi permanente. Il merito accademico è equiparato al denaro che raccogli, mentre uno studente istruito viene ridefinito come una persona occupabile. Non è un buon periodo per fare il paleografo o il numismatico, attività che presto non riusciremo non solo a praticare, ma neppure a descrivere correttamente.
Le ripercussioni di questa emarginazione delle materie umanistiche si fanno sentire anche nelle scuole secondarie, dove le lingue moderne sono in caduta libera, dove storia significa storia moderna e dove l’insegnamento dei classici è confinato per lo più nelle istituzioni private come Eton (è per questo che il vecchio etoniano Boris Johnson, sindaco di Londra, infiora sistematicamente le sue dichiarazioni pubbliche con citazioni di Orazio).
È vero che i filosofi possono sempre creare centri di studio sul senso della vita agli angoli delle strade, o che i linguisti possono stazionare in punti strategici dove magari serve una breve traduzione. In generale, l’idea è che le università devono giustificare la loro esistenza diventando ancelle dell’imprenditoria. Come dichiara gelidamente un rapporto del governo, dovrebbero operare come “organizzazioni di consulenza”. Di fatto, sono diventate industrie redditizie che organizzano concerti ed eventi sportivi, gestiscono alberghi, servizi di catering e così via.
Istruire i giovani, come proteggerli dai serial killer, dovrebbe essere una responsabilità sociale, non una questione di profitto
Se nel Regno Unito le discipline umanistiche si stanno spegnendo, è in larga misura perché vengono spinte dalle forze capitalistiche affamate di risorse (l’istruzione superiore britannica non ha la tradizione filantropica degli Stati Uniti, soprattutto perché lì i milionari sono molti di più che nel Regno Unito). Stiamo anche parlando di un paese in cui, a differenza degli Stati Uniti, l’istruzione superiore tradizionalmente non veniva trattata come una merce da vendere e comprare. Con ogni probabilità la maggioranza degli studenti universitari britannici oggi sono convinti che l’istruzione superiore dovrebbe essere fornita gratuitamente, come avviene in Scozia, e anche se in questa opinione c’è un’evidente dose di interesse, c’è anche un buona parte di giustizia. Istruire i giovani, come proteggerli dai serial killer, dovrebbe essere una responsabilità sociale, non una questione di profitto.
Io stesso, in quanto destinatario di una borsa di studio statale, passai sette anni da studente a Cambridge senza pagare un soldo. È vero che questa servile dipendenza dallo stato in un’età in cui si è facilmente influenzabili mi rese poi smidollato e depresso, incapace di stare in piedi da solo o di proteggere la mia famiglia con un’arma da fuoco in caso di necessità. Con un vile atto di dipendenza dallo stato, qualche volta feci perfino ricorso ai servizi dei vigili del fuoco invece di sconfiggere le fiamme con le mie mani. Eppure rinuncerei di nuovo a qualunque pretesa d’indipendenza virile per sette anni gratis a Cambridge.
È vero che solo il 5 per cento circa della popolazione britannica frequentava l’università ai tempi in cui io ero studente e c’è chi sostiene che oggi, con quella percentuale che raggiunge quasi il 50 per cento, una simile liberalità di spirito non è più sostenibile. Eppure la Germania, per fare solo un esempio, offre un’istruzione gratuita alla sua ragguardevole popolazione studentesca. Un governo britannico che cercasse seriamente di aiutare le generazioni più giovani potrebbe farlo alzando le tasse agli oscenamente ricchi e recuperando i miliardi persi ogni anno a causa dell’evasione fiscale.
Cercherebbe anche di ristabilire la fama dell’università come uno dei pochi settori della società moderna (insieme alle arti) in cui le ideologie dominanti possono essere sottoposte a un esame rigoroso. E se il valore delle scienze umanistiche non stesse nel modo in cui si conformano alle idee dominanti, ma proprio nel modo in cui non si conformano? Non c’è valore nell’integrazione in quanto tale. In epoca premoderna gli artisti erano più integrati nella società di quanto lo siano stati nell’era moderna, ma questo significa anche che spesso erano ideologi, agenti del potere politico, portavoce dello status quo. L’artista moderno non ha una nicchia altrettanto sicura nell’ordine sociale.
Così fino a quando non emergerà un sistema migliore, personalmente ho deciso di unire il mio destino a quello dei biechi fornitori di profitti. Con una certa vergogna, ho ormai preso l’abitudine di chiedere agli studenti, all’inizio di una sessione, se possono permettersi le mie osservazioni più sottili sulle opere letterarie o se vogliono accontentarsi di qualche commento utile, ma meno scintillante.
Farsi pagare in base alle osservazioni è una faccenda antipatica, e forse non è il modo più efficace per instaurare relazioni amichevoli con i propri studenti, ma appare una logica conseguenza dell’attuale clima accademico. A chi lamenta che ciò può creare odiose distinzioni fra gli studenti, vorrei far notare che chi non è in grado di allungare dei contanti per le mie analisi più penetranti è libero di praticare il baratto. Torte appena sfornate, barilotti di birra fermentata in casa, maglioni artigianali e robuste scarpe fatte a mano: tutte queste cose sono perfettamente accettabili. Dopo tutto, nella vita non ci sono solo i soldi.
(Traduzione di Giuseppina Cavallo)
Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2015 sul numero 1103 di Internazionale. Era uscito sul Chronicle of Higher Education con il titolo The slow death of the university.