Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2013 sul numero 1002 di Internazionale.
Sono passati due anni da quando ho deciso di separarmi dall’uomo che stavo per sposare. In una serata mite, con una leggera brezza che agita le foglie alle nostre spalle, ci ritroviamo seduti al tavolo di un ristorante. Passato il dolore, l’amicizia è intatta. Parliamo delle cose che abbiamo condiviso, delle ragioni che ci hanno spinto a separarci, e poi lui mi stupisce dicendo: “Sai, l’unica cosa che rimpiango è che avremmo avuto dei bambini bellissimi e tu saresti stata meravigliosa, sei una madre nata”. Io? Una madre nata? Su cosa basava questo suo giudizio, mi sono chiesta, e cosa intendeva dire? È vero che ho sempre adorato i bambini, allora come oggi. In effetti, mi basta vederne uno per la strada camminare per mano o in braccio a un genitore, per dirigermi “naturalmente” da quella parte. Ma è sufficiente, questo, per dire che sarei stata una buona madre? Non ne sono affatto sicura.
Trent’anni dopo. Sono sempre single e adoro i bambini. Ormai sono abituata a sentirmi chiedere: perché non ti sei mai sposata? Non senti il bisogno di avere un compagno? Non ti senti sola? Non vuoi dei figli? Anche se alcuni dei collegamenti mi sfuggono, sono domande che mi faccio spesso anch’io: desidero avere dei figli? Mi perdo qualcosa se non divento madre? La maggior parte delle mie amiche lo desiderano intensamente: vogliono sentire la vita crescere dentro di loro, essere incinte, “donare” la vita, amare incondizionatamente, avere qualcuno che un domani si prenderà cura di loro (e del loro compagno), vivere la gioia della maternità. Io non provo nessuna di queste cose. Significa che sono un’insensibile? Che non ho sentimenti? Mento a me stessa quando dico che non provo alcun desiderio di avere dei figli? Lo dico solo perché in realtà li desidero, ma non voglio sentirmi in alcun modo in difetto e quindi immagino di non volerne? È difficile dirlo. Ma sono sempre molto diffidente verso me stessa, e mi preoccupo: sono davvero la persona soddisfatta che credo di essere, o sto solo fingendo?
Quella frase del mio amico non mi ha più abbandonata. Ogni tanto ci ripenso e comincio a chiedermi: se sono così portata per diventare madre, allora perché non ho mai sentito un desiderio attivo di maternità? Ripenso alle mie amiche che parlano di un sentimento di amore incondizionato. Be’, non è una cosa che mi sia del tutto sconosciuta: perché, allora, la gente la immagina associata solo ai figli? Le mie amiche con figli parlano di notti insonni, di mariti irresponsabili, di sorelle e fratelli poco collaborativi, di iscrizioni scolastiche, di carriere abbandonate, di voti e università, non sento altro. E poi il solito commento, buttato lì: “Ma tu che ne sai? Non sei mai stata madre”.
Ho appena avuto il mio primo lavoro, in una casa editrice. Mio padre va dal direttore generale, un bengalese gioviale, per affidargli la sua figliola. Il direttore mi dice che è la prima volta che assume una donna per un posto di dirigente. Di solito la sua azienda preferisce non farlo perché poi le donne si sposano e fanno figli. Lo dice come se fosse un crimine. Io gli prometto che non lo farò. E mantengo la promessa, anche dopo aver lasciato quel lavoro. Niente matrimonio, niente figli.
Mi dicono che la maternità è il destino di una donna, è quello che la completa. Eppure non mi sento incompleta. Ho qualcosa che non va?
Mia madre e io stiamo parlando. Mi preoccupo per te, dice, come farai da vecchia? Tutti abbiamo bisogno di qualcuno. Se non vuoi sposarti, perché non adotti un bambino? Ma è davvero una buona ragione per adottare un bambino, le chiedo, avere qualcuno che ti faccia compagnia quando invecchi? E quali garanzie avrei, comunque? No, no, cambia subito registro lei. Non è per questo che dovresti adottare. Solo, pensa che nonni meravigliosi si perde questo bambino potenziale! Un buon motivo per adottare, non credi? Forse ne sa più di me, mi dico, e comincio a informarmi sulle possibilità di adozione. Per un po’, sono eccitata dal cambiamento di vita che mi aspetta, ma alla fine mi manca il coraggio, o la motivazione. E rinuncio.
Ho fondato una mia casa editrice, che pubblica libri di donne e sulle donne. È un lavoro che faccio con grande passione, che mi dà gioia, che mi coinvolge totalmente. So che è quello che voglio fare per tutta la vita. Desidero in qualche modo lasciare un segno nel modo in cui la gente considera le donne, voglio essere parte del cambiamento. È una follia questa ossessione? Perché non ho mai provato la stessa cosa per la maternità? O sto solo compensando un desiderio inappagato? Mi dicono che la maternità è il destino di una donna, è quello che la completa. Allora perché pubblicare libri è così importante? Eppure non mi sento incompleta, o inadeguata. Ho qualcosa che non va?
Da molti anni la mia amica Judith cerca di avere dei figli. Ha avuto una serie di aborti spontanei ed è profondamente depressa. I rapporti con suo marito stanno diventando sempre più tesi. Entrambi desiderano ardentemente avere dei figli, ma sembra proprio che non ci riescano. Un bel giorno io e lei ne parliamo, in una fredda città europea. Perché non adotti? le chiedo Come faccio? risponde. Non so neanche che cosa proverei per un bambino non mio. Ma sarà tuo, le assicuro. Anche se non lo avrai partorito sarà sempre tuo. Continuiamo a parlare. Mi lancio in una difesa appassionata dell’adozione, della sua importanza, della maternità che non è solo quella biologica. Tornata a casa in India, le scrivo una lunga lettera, persuasiva, eloquente. Lei mi dice che è stata fondamentale, nella scelta che ha fatto. Oggi ha due belle bambine, sorelle, adottate nello stesso paese, e ha scritto un libro sulla maternità che è diventato un best seller. Perché sono stata così convincente? A dire il vero non lo so.
Sono con la mia amica Mona Ahmed, una hijra, nella sua casa di Mehendiyan, a Delhi, un complesso residenziale con due moschee, una madrassa, due cimiteri, un dhobi gat (lavatoio) e molte abitazioni. Maschio fino a 18 anni e poi castrato, Mona è diventata donna dopo essersi sottoposta all’intervento di cambio di sesso. Aveva sempre desiderato avere un figlio, mi dice. Volevo stringere un bambino tra le braccia, crescerlo, imparare a essere madre. Oggi ha da poco passato i settant’anni, e una ventina d’anni fa ha realizzato il suo sogno, quando una vicina di casa è morta di parto e il marito non sapeva che farsene della bambina appena nata. Mona, allora, ha “creato” una famiglia dove lei era il padre, abbu, la sua amica trans Neelam era la madre, ammi, e il suo maestro spirituale, Chaman, era la nonna, dadi. Nella realtà, però, i ruoli erano mescolati. Era Mona la vera madre di Ayesha, la bambina: l’ha nutrita, le ha dato un nome, una data di nascita e un’identità. Ho scelto il 26 gennaio come data di nascita, mi ha detto, perché volevo che fosse libera come l’India. E ho imparato a fare la madre, ha aggiunto. Andavo tutti i giorni dalla pediatra e le chiedevo di insegnarmi come dovevo darle da mangiare, farle fare il ruttino, lavarla, cambiarla, quali erano le cose a cui dovevo stare attenta, come dovevo fare per capire quando era il caso di alzarmi la notte, e così via. A essere madri si impara, dunque? Per le donne è un fatto istintivo, e per una persona come Mona, un padre che in realtà è una madre?
La figlia di Mona, Ayesha, viene a trovarmi. Parliamo della sua vita: una giovane donna cresciuta in una famiglia di transessuali, con un padre (Mona) che in realtà era la madre, e una nonna (Chaman) a cui tutti si rivolgevano al maschile, tranne Ayesha che la chiamava nonna. Riesci a immaginare come può essere stato? mi chiede. Mi hanno dato tanto amore, ma una ragazzina ha bisogno anche di altre cose, crescendo, si fa tante domande su se stessa, sul suo corpo. A chi potevo rivolgermi? Non c’erano altre donne, solo questi uomini-donna, queste persone dalla sessualità indefinita. Mi sentivo così sola. Forse la maternità non è una cosa che si impara, dopo tutto.
Un giovedì mattina, Bina, la figlia del presswallah (lo stiratore) di fronte a casa mia, scappa di casa. Nessuno sospetta niente fino al pomeriggio. Era andata a scuola dove aveva un esame, forse dopo è uscita con gli amici a festeggiare. Ma Bina è una “brava” ragazza, non esce senza prima avvertire i genitori, e così quando arriva la sera i genitori cominciano a preoccuparsi. Tornati a casa nella loro comunità, si chiedono se sia il caso di rivolgersi alla polizia. Temono uno scandalo: e se fosse solo un’evasione innocente? Magari la ragazza è andata da qualche parte e poi si è addormentata. Perché rendere pubblica la sua scomparsa? Ma quella sera manca da casa un altro ragazzo, il figlio di un vicino. I sospetti cominciano a trasformarsi in certezze, e i genitori decidono di sporgere denuncia. Un paio di giorni dopo, la polizia ritrova i due ragazzi in una città vicina e li riporta a casa. Giurano che la loro è stata una fuga innocente: hanno solo fatto un giro allo zoo, sono stati al cinema e poi, per paura di essere sgridati dai genitori, hanno preso un autobus e sono andati a casa di un parente. Avete dormito insieme? chiedono i genitori preoccupati, usando degli eufemismi. Non esiste un modo diretto di chiedere a due ragazzini se hanno fatto sesso, non c’è un vocabolario adatto. No, no, rispondono loro con forza. I genitori non smettono di chiedere quello che i due ragazzi hanno capito benissimo che vogliono sapere.
Un mese dopo Bina è incinta. Sua madre e io la accompagniamo in una clinica vicina. Tentiamo di dire al medico che è stato un incidente, ma Bina è più veloce di noi. No, dice, non era la prima volta con quel ragazzo. Noi ammutoliamo. È chiaro che ha mentito a sua madre e a me. Sua madre è distrutta. Ho fatto così tanto per lei, ed è questa la ricompensa? Io capisco il suo dolore, ma mi chiedo anche: dov’è finito l’amore incondizionato? Quand’è che è entrato in gioco il fattore ricompensa? In che modo i figli devono ricompensarti? Bina abortisce e resta persona sgradita. Il ragazzo scompare dalla sua vita e poco dopo sposa un’altra. I peccatucci dei maschi sono più tollerati.
Due anni dopo Bina scappa di nuovo. Questa volta con un uomo sposato. Sua moglie è sterile, e lui sposa Bina e la porta a vivere nella sua casa. Bina gli dà due figli, rendendolo l’uomo più felice del mondo. Ora è sposata, e anche madre. I suoi genitori sono sollevati e felici. Tutto risolto. È madre. Nessuno oserà più dire niente, ora. E oltretutto il marito è benestante. Legittimità e ricchezza: una combinazione vincente. In seguito, Bina aiuterà il fratello ad avviare un servizio di taxi finanziando l’acquisto di un’auto.
È venuta a trovarmi un’amica occidentale. Parliamo a cena. È il compleanno di suo figlio e lei non sa se chiamarlo o no. Hanno un rapporto difficile, teso. Il figlio ce l’ha con la madre perché pensa che lei non gli dedichi abbastanza tempo e attenzione, da quando si è separata dal padre. La madre è preoccupata perché il figlio non ha ancora trovato un lavoro. Alla fine lo chiama. Tanti auguri, gli dice. Parlano, in tono affettuoso e poi, di colpo, esplodono rabbia, risentimento, quasi una sorta di odio. Lo sapevo, dice lui, fai sempre così, vuoi sempre mortificarmi. Lei cerca di spiegare, lui non vuole ascoltare, lei è sconvolta ma cerca di non troncare la conversazione. La telefonata finisce male. Sono una cattiva madre? mi chiede. Faccio male a desiderare una carriera? Ho fatto quello che ho potuto per lui, gli voglio bene, ma non sarebbe ora che prendesse in mano la sua vita? Secondo te che cosa dovrei fare? Non ho una risposta a questa domanda.
Sono a casa. Mia madre, novant’anni, non sta bene. Diventa ogni giorno più debole, non riesce a mangiare, dev’essere accompagnata al bagno. Un giorno, mentre l’aiuto a lavarsi mi chiede, come potrò mai ripagarti? E io chiedo a me stessa e a lei come le venga in mente un pensiero del genere. Ha passato gran parte della sua vita a crescere non uno ma quattro figli, certamente le dobbiamo qualcosa. Di nuovo la storia della ricompensa. Via via che diventa più debole, mi ritrovo a organizzare la mia vita intorno ai suoi bisogni: lascio l’ufficio per tornare a casa a pranzo perché lei non resti sola, la metto a letto la sera e resto con lei, mano nella mano, finché non si addormenta tranquilla, le faccio il bagno, l’accudisco, le dò da mangiare, la porto a passeggio, trascorro del tempo con lei… in altre parole, le faccio da madre. Un amico commenta, sei diventata tu, la madre. Ne parlo con le amiche e scopriamo che ci troviamo tutte in situazioni simili, madri delle nostre madri. Diventiamo le nostre madri. È questo che s’intende, quando si parla di naturalità dell’essere madri?
Stiamo cercando di organizzare una riunione del direttivo di una ong di cui faccio parte. Siamo in sei e dobbiamo trovare una data che vada bene per tutti. Uno di noi, un uomo, dice che per lui andrebbe meglio un fine settimana, perché ha un figlio che sta per sposarsi ed è molto occupato. Un’altra annuncia che sta per diventare nonna, e all’improvviso tutti cominciano a scambiarsi storie di figli e nipoti, e a dire quanto sia meraviglioso. Io mi intrometto per dire che non so niente di queste cose, e loro mi consolano, non preoccuparti, ti nomineremo nonna onoraria. Niente figli, niente preoccupazioni. È vero, penso, sono fortunata. Non dovrò mai preoccuparmi della scuola a cui iscrivere mio figlio, o della media con cui sarà ammesso al college. Non dovrò neanche affrontare le angosce più profonde che vivono tutte le madri.
Ma non c’è solo il sollievo. Le preoccupazioni restano. Ho appena visto un’amica letteralmente distrutta per la perdita del figlio ventenne morto in un incidente. È inconsolabile, si sente come se le avessero strappato una parte di sé, un pezzo del suo stesso corpo. La maternità è anche questo, l’attaccamento profondo e intenso che ti lega a un figlio, la disperazione terribile e devastante quando lo perdi. E io? Sarei riuscita a sopravvivere a un così grande dolore, se fosse successo a me? Inutile fare congetture, ma il solo pensiero di una madre che perde un figlio mi riempie il cuore di angoscia: non può esserci lutto peggiore. Non avere figli è una consolazione, ma solo da un punto di vista egoistico.
E poi m’interrogo. Per anni mi sono definita una donna single. Una definizione importante, per me: essere single è una condizione positiva, che non implica una mancanza o una negazione, come nella formulazione “non sposata”. Per la condizione di chi non ha avuto figli, invece, non esistono formulazioni positive. Sentiamo parlare solo di coppie “senza” figli, e di donne “sterili”. Perché? Io non ho fatto la scelta di non avere figli, ma è andata così. Non provo un senso di perdita per questo, la mia vita è stata gratificante in tanti altri modi. Perché dovrei definirla nei termini di una mancanza? Sono una donna sterile? Non riesco a conciliare questa definizione con quello che so di me stessa.
Ricordo una delle autrici che abbiamo pubblicato, una domestica che si chiamava Baby Halder. Aveva avuto il suo primo figlio quando aveva solo tredici anni. Lei stessa una bambina, era diventata madre senza quasi rendersene conto. A un certo punto, ripensando alla sua infanzia, aveva osservato quanto fosse stata breve ed effimera. Un pomeriggio, sfinita dopo aver accolto in casa e servito i pretendenti di sua sorella, si lasciò scivolare a terra lungo una parete, e si mise a riflettere sulla sua vita. La sua infanzia era stata così breve che la vide scorrere tutta davanti ai suoi occhi in pochi istanti. Ne leccai ogni attimo, disse, come la mucca lecca il suo vitello, per assaporarla e farne tesoro. Anche se la legge lo vieta, per tante delle nostre ragazze la maternità arriva prima che abbiano smesso di essere bambine. È una cosa giusta? Perché è tanto valorizzata?
Niente è semplice, però. Recentemente, sui giornali si è parlato molto della storia di una coppia bengalese residente in Norvegia: le autorità norvegesi gli hanno tolto i due bambini. Stando alle cronache, uno dei bambini soffrirebbe di un cosidetto “disturbo dell’attaccamento”: comincia a sbattere la testa contro il muro ogni volta che vede la madre. I giornali parlano di un rapporto teso, conflittuale e a volte violento tra madre e figlio. Alla fine, la madre è stata giudicata inadatta a occuparsi dei bambini, che sono stati affidati a uno zio. Quando i bambini sono arrivati in India, la questione ha assunto connotazioni completamente diverse, di carattere politico e nazionalistico. Ora il problema è se la Norvegia debba decidere cosa è giusto e cosa non lo è per i nostri bambini. Nel Bengala, la commissione per i diritti dei minori ha stabilito che i due bambini devono essere riconsegnati alla madre. Nessuno degli articoli apparsi sui giornali dice niente sulla effettiva capacità della donna di occuparsi dei figli, o degli effetti che questo continuo tira e molla può avere su di loro.
La mia conoscenza dei fatti si basa solo su quel che riferiscono i giornali e non saprei dare un giudizio sui torti e le ragioni delle parti coinvolte. Il problema che mi pongo è un altro. Nel forum di discussione online Feministsindia circola un’aria di soddisfazione per la decisione di restituire i figli alla madre. Si dà per scontato che la madre sia la tutrice “naturale” dei figli (torniamo alla storia della “naturalità”), la persona più adatta a prendersi cura di loro. Perché? Come femministe abbiamo sempre messo in discussione la “naturalità” della maternità, eppure eccoci qua a darla per scontata, senza neppure prendere in considerazione l’idea che le madri possano essere violente, incapaci di occuparsi dei loro figli e perfino poco disposte a farlo. Mi chiedo: come stanno le cose veramente? Le autorità norvegesi non hanno tenuto conto delle diverse sensibilità culturali? O, come spesso accade, hanno creduto soltanto alla versione del padre? Tutto quello che hanno scritto i giornali sulle presunte violenze della madre sarebbe falso, dunque? Oppure noi, come femministe, stiamo riaffermando il mito della maternità? Dove sta la verità? Il rapporto tra una madre e un figlio è sempre meraviglioso? Non ho risposte a queste domande.
Allora, quali conclusioni trarre? La maternità è un fatto naturale? Non avere figli è una maledizione? La sterilità è qualcosa di spaventoso, una vita di mancanza, di perdita di quello che avrebbe potuto essere? O solo un altro modo di vita? Una scelta, un caso, una circostanza, chiamatela come volete, ma per me è una vita felice e appagante nonostante sia – o forse proprio perché è – come si suol dire “senza figli”. Per quelle come me che avessero ancora dei dubbi, state tranquille, si vive benissimo.
(Traduzione di Diana Corsini)
Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2013 sul numero 1002 di Internazionale. Era uscito su Mint con il titolo Childless, naturally.
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