Quattro donne e le loro storie dolorose e violente, segnate però anche da coraggio e speranza. Da Dar es Salaam, la capitale economica della Tanzania in riva all’oceano Indiano, parlano al mondo grazie a un film, Binti, che in lingua swahili vuol dire “ragazza”. E ragazze sono la sceneggiatrice, la regista e le produttrici. Applaudite a Los Angeles negli Stati Uniti, a Lagos in Nigeria o a Johannesburg in Sudafrica; premiate allo Zanzibar International Film Festival e capaci di prendersi il loro spazio nel catalogo della piattaforma internazionale di streaming Netflix: una prima assoluta per un’opera realizzata in Tanzania.

“Le quattro protagoniste si chiamano Tumaini, Angel, Stella e Rose e potrebbero vivere in qualunque posto del mondo, in Kenya, in Europa o a Hong Kong”, ci dice Alex Temu, l’attore che interpreta forse l’unico personaggio maschile che cerchi di capire la sua compagna. “Il problema che emerge in tutte le storie, che riguarda le donne e che svela anche gli uomini, è proprio la mancanza di comunicazione”. Incontriamo Temu in una panetteria biologica con teche di vetro tra alberi di jacaranda non lontano dalla Penisola, il quartiere alla moda di Dar es Salaam. Seduta accanto a lui c’è Angela Ruhinda, 33 anni, che insieme con la sorella Alinda è la fondatrice della casa di produzione di Binti. “Tutta al femminile”, precisa. “Si chiama Black Unicorn Studios perché vuole essere fantastica come l’unicorno nero”.

Le storie del film, invece, sono vita vera. Abbandonata dal padre e taglieggiata dal racket, Tumaini ce la mette tutta per non dover chiudere il suo negozio. È vittima di abusi e violenza anche Angel, che finalmente capisce che con il fidanzato non potrà mai funzionare. Stella è una benestante e ha un compagno che prova a volerle bene ma che non riesce a soddisfare il suo desiderio di un figlio. Rose invece un figlio lo ha: è affetto da disabilità cognitiva e il padre continua a ignorarlo, perché non vuole assumersi alcuna responsabilità.

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“In un primo momento pensavamo di intitolare il film Her life, la sua vita, perché mostra sfide reali che tante donne si trovano ad affrontare ogni giorno”, dice Angela Ruhinda. “Le storie sono interclassiste, perché riguardano persone sia del ceto popolare sia della classe media; rivelano un divario generazionale, tra le figlie e le loro madri, depositarie di saggezza in un paese in cui l’età media è di 18 anni; mostrano gli abusi fisici o psicologici che colpiscono tante ragazze, che quindi si rivedono nelle protagoniste”.

Binti è stato presentato per la prima volta l’8 marzo 2021 come “una lettera d’amore a tutte le donne” nel corso del Pan African Film Festival di Los Angeles. Oggi in Tanzania è un successo e un punto di orgoglio. “È diretto da Seko Shamte e basato sulla prima sceneggiatura di Maria Shoo, che all’età di 26 anni nel 2018 ha vinto il nostro primo concorso Made in Africa, aperto a storie sui diritti delle donne”, spiega Angela Ruhinda. “Entro fine anno organizzeremo una seconda edizione: qui c’è molto talento, anche se purtroppo mancano attrezzature, risorse e soprattutto scuole di formazione”.

Cinema verità
La storia delle fondatrici di Black Unicorn ne è una conferma. Figlia di diplomatici, Angela Ruhinda è nata in Canada ed è rientrata a Dar es Salaam nel 2016, dopo aver studiato in Kenya, nel Regno Unito e infine cinque anni negli Stati Uniti, dove ha frequentato la New York Film Academy. Tra i suoi contatti c’è Okada Media, una casa di distribuzione che dal 2013 organizza a Parigi un festival dedicato ai nuovi talenti di Nollywood, com’è nota nel mondo l’industria cinematografica della Nigeria. Sul sito di Okada Media, che ha favorito l’accordo tra Black Unicorn e Netflix, si riferisce della mission di “promuovere contenuti africani di qualità, che dovrebbero essere considerati la norma invece che l’eccezione”.

Secondo Angela Ruhinda, le cose potrebbero cambiare anche per la Tanzania. E per questo tra i suoi progetti c’è l’apertura di una scuola di sceneggiatura e di cinema a Dar es Salaam. Ne parliamo anche con Alex Temu, un altro tanzaniano che ha girato l’America e l’Europa. All’appuntamento si presenta con parecchio ritardo, ma la sua simpatia conquista in un minuto. È architetto e di ritorno a Dar, oltre a fare l’attore, lavora in uno studio. Gli chiediamo cosa pensano di Binti gli uomini. “Credo”, risponde, “che alcuni preferirebbero che in famiglia non lo vedessero, perché mostra i loro stessi comportamenti di violenza e sopraffazione”.

È quasi l’ora del tramonto. Lasciamo il centro città per raggiungere un bar in riva all’oceano. L’appuntamento è con una delle attrici protagoniste, Helen Hartmann. In Binti ha la parte di Stella, la compagna di Ben, il ruolo interpretato da Temu. Nel film non riesce a restare incinta con la fecondazione assistita, soffre e prova rabbia, ma questa sera si presenta come una star: ha un figlio italiano, spiega, dopo averci salutato con un “come stai?”. Parliamo anche un po’ di politica e di Samia Suluhu Hassan, prima presidente donna della Tanzania, alla guida dello stato dalla scomparsa di John Magufuli, della quale era stata la vice fino al 17 marzo 2021. “Credo che questa sia una fase di cambiamenti”, sorride Hartmann, tornando ad altre storie, quelle di tutti i giorni: “È importante che il cinema racconti le donne, affinché rivedendo se stesse, un’amica o una parente, possano diventare più consapevoli”. E non è vero che il rapporto con gli uomini sia sempre uguale: “Ce ne sono di violenti ma anche di attenti o magari di confusi; alla fine però dovranno riconoscere il nostro valore, magari chissà anche grazie al cinema”.

Annuisce Regina Kihwewle, che ci ha raggiunto e pure fa l’attrice. In Binti ha una parte minore, mentre è protagonista in Mulasi e in Dodoma, un film appena finito di girare. Alla conversazione partecipa la regista di entrambi i lavori, che si chiama Honeymoon Aljabri. Ha 47 anni, madre tanzaniana, padre yemenita e una vita negli Stati Uniti. È rientrata a Dar es Salaam per poche settimane, giusto il tempo delle riprese di Dodoma. “Il film parla di salute mentale e di depressione, una malattia tabù, che in Tanzania le donne non hanno neanche il diritto di avere”, spiega la regista. “Credo che il cinema debba avere una funzione sociale, aiutando anche a far capire che ‘it’s okay not to be okay’, è un diritto anche non star bene”. Riprende la parola Helen Hartmann. È convinta che il tabù sulla salute mentale colpisca non solo le donne, ma anche gli uomini o i bambini. La discussione si fa accesa e ormai è quasi buio. Accanto a un banano, oltre le sedie di vimini, ronzano le zanzare. E nella testa l’ultima domanda: ma come vanno a finire i film tanzaniani? “Sono storie aperte”, rispondono le ragazze, quasi in coro. “Ognuna può rivedersi, tutte possono scrivere la fine”.

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