Questo articolo è uscito sul numero 1373 di Internazionale.

Recentemente ho fatto il test per il covid-19 al drive-through (un’area dove si può fare il test restando in auto) allestito dall’università del North Carolina. Tutto era ben organizzato ed efficiente: ho passato 15 secondi di disagio durante il prelievo, e poi sono stata rispedita a casa con due pagine di istruzioni su cosa fare in caso di esito positivo e sulle precauzioni che deve prendere chi vive con un malato di covid o lo assiste. Si spiegava in modo approfondito come prevenire la trasmissione attraverso le superfici, e c’erano molti dettagli sul bucato, sui disinfettanti, sulle dosi esatte per preparare una soluzione disinfettante e su come usarla per igienizzare.

Nonostante l’abbondanza di particolari, però, ho trovato una sola frase sulla “buona ventilazione”. Una frase che rischiava di fare più danno che bene. Suggeriva infatti di assicurarsi “un buon flusso d’aria, come quello proveniente da un condizionatore o da una finestra aperta, tempo permettendo”. Ma si sa che, in certi casi, l’aria condizionata non aiuta affatto. Jose-Luiz Jimenez, un professore dell’università del Colorado che si occupa proprio di qualità dell’aria, mi ha detto che certi condizionatori possono aumentare le probabilità di diffondere l’infezione nelle case. Inoltre, quel “tempo permettendo” suonava come una specie di ripensamento che rendeva il consiglio quasi irrilevante.

Mentre aspettavo il risultato del test, sono andata a guardarmi le ultime email ricevute da aziende che cercavano di rassicurare i clienti sulle loro precauzioni sanitarie. Per esempio, una grande linea aerea statunitense mi informava che sanificava diligentemente e più volte al giorno le superfici interne dei suoi aerei e dei terminal, ma non aggiungeva nulla sull’efficacia della circolazione dell’aria e del filtraggio nelle cabine degli aeromobili (peraltro molto alta).

Un’azienda locale che opera in uno spazio chiuso e un po’ angusto mi comunicava che tutti si tenevano “puliti e sani”, illustrando il messaggio con flaconi di gel igienizzante per le mani, ma non una parola sulla ventilazione. Tenevano le finestre aperte? Usavano filtri potenziati nei sistemi hvac (riscaldamento, ventilazione e condizionamento dell’aria)? Oppure dei filtri hepa (ad alta efficienza) portatili? È sconcertante che in tema di igiene continuiamo a richiamare l’attenzione sulle pulizie incessanti ma non facciamo caso all’aria che respiriamo anche se la sua importanza è sempre più evidente. Perché, a sei mesi dallo scoppio di una pandemia respiratoria, continuiamo a ricevere indicazioni così scarse su una variabile importantissima come l’aria che respiriamo?

Il dibattito è aperto
Il Sars-cov-2 si riproduce nella porzione superiore e inferiore del nostro apparato respiratorio; una persona infetta lo mette in circolazione quando respira, parla, canta, tossisce o starnutisce. Capire come viaggia un agente patogeno e quali distanze può percorrere, a quali condizioni, e come fa a contagiare – insomma capire come si trasmette – non è un fatto secondario, perché ci consente di capire qual è il modo efficace di contrastarlo. Per quanto riguarda il covid-19, la discussione più importante è forse sulla percentuale e le dimensioni dei droplet (le goccioline emesse con il respiro e la saliva) delle persone infette, su quanto siano contagiosi e in che modo si spostino. Non sorprende che il dibattito sulle modalità di trasmissione del virus sia tutt’altro che concluso: siamo di fronte a un agente patogeno nuovo. Angela -Rasmussen, una virologa della Columbia university, mi ha spiegato che ci sono voluti secoli per capire il modo in cui si trasmettevano patogeni come la peste, il vaiolo e la febbre gialla, e il loro funzionamento. Del resto, gli scienziati hanno ancora opinioni diverse sulla trasmissione di virus comunissimi, come quello dell’influenza.

La dimensione delle particelle contagiose è importante, perché determina il loro modo di viaggiare. Sono abbastanza grandi da essere rapidamente attirate verso il basso dalla forza di gravità, oppure sono tanto piccole da restare in sospensione nell’aria? Fin dallo scoppio della pandemia l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sostiene che la modalità primaria di trasmissione del virus Sars-cov-2 sono i droplet. Si chiamano droplet le particelle con un diametro compreso tra i 5 e i 10 micrometri (millesimi di millimetro), e, secondo l’Oms, una volta espulse dalla bocca o dal naso di una persona infetta cadono a terra a distanza ravvicinata. Per l’Oms questa distanza è intorno al metro (negli Stati Uniti i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, Cdc, che concordano sul fatto che i droplet siano la modalità primaria di trasmissione, fissano questa distanza intorno ai due metri). Se così fosse dovremmo stare attenti principalmente a non trovarci alla portata di queste particelle, e in particolare impedire che ci cadano su bocca, naso e occhi non protetti: da qui le regole del distanziamento sociale. Inoltre, per restare in sicurezza basterebbe rispettare questa distanza dalla persona infetta, per esempio mettendosi all’estremità opposta quando siamo nella stessa stanza. Rimane, ovviamente, il rischio che siano le nostre mani a raccogliere le goccioline dalle superfici e a portarle al viso: per questo è essenziale lavarcele spesso.

Ma appunto la comunità scientifica non concorda sulle dimensioni e il comportamento di queste particelle, e la soluzione di questo dibattito cambierà tante raccomandazioni in materia di prevenzione. Molti scienziati, infatti, ritengono che il virus sia espulso dalla bocca anche in particelle più piccole, di dimensioni talmente ridotte da restare sospese in aria, fluttuando in balia delle correnti e accumulandosi negli spazi chiusi. Secondo Don Milton, medico e docente di salute ambientale dell’università del Maryland, i droplet più grandi sono paragonabili alle gocce “emesse dallo spruzzatore di un comune prodotto per pulire i vetri”, e le particelle più piccole che fluttuano in aria, dette anche aerosol, “alla nebbiolina prodotta da un umidificatore a ultrasuoni”. Per evitare i primi basta fare un passo indietro; ma per evitare di inalare le seconde il distanziamento da solo non basterebbe.

La discussione si è fatta talmente accesa che all’inizio di luglio centinaia di scienziati di tutto il mondo hanno firmato una lettera aperta in cui chiedono all’Oms di riconoscere che anche queste particelle più piccole possono trasmettere il virus e di aggiornare di conseguenza le sue linee guida. Alcuni esperti che ho consultato insistono su questo punto con l’Oms da marzo, e mi hanno detto che la lettera aperta è nata proprio dalla frustrazione per l’assenza di qualsiasi progresso.

Tra i firmatari ci sono alcuni esperti che studiano gli aerosol, come Linsey Marr, del Virginia tech, e il già citato dottor Jimenez. I due, mi hanno precisato, concordano con l’idea che la modalità più rischiosa di trasmissione sia quella a distanza ravvicinata, come si legge nelle linee guida dell’Oms e dei Cdc. Però, affermano, questo non implica che la modalità di trasmissione prevalente siano le traiettorie balistiche o i droplet respiratori più grandi: in parte la trasmissione attraverso il contatto ravvicinato potrebbe essere dovuta agli aerosol. Inoltre molti esperti ritengono che anche particelle più grandi di quelle definite “droplet respiratori” dall’Oms possano restare sospese nell’aria per un po’. In risposta a queste obiezioni, l’Oms ha pubblicato il 9 luglio una nota scientifica in cui riconosce la possibilità della trasmissione aerea ma trae comunque la conclusione che il Covid-19 sia “trasmesso prevalentemente” da una persona all’altra per mezzo dei droplet e del contatto fisico, e che la questione vada “ulteriormente studiata”.

Questione di terminologia
Uno dei problemi è che gli esperti coinvolti – tra i quali ci sono specialisti in malattie infettive, epidemiologi, ingegneri ambientali e studiosi degli aerosol – non sono d’accordo neppure sulla terminologia. Le particelle che emettiamo dalla bocca infatti si possono chiamare droplet, microdroplet, nuclei di droplet (cioè particelle grandi che poi si riducono per effetto dell’evaporazione), oppure aerosol. Tra particelle più grandi e più piccole e tra drop-let e aerosol non c’è una distinzione netta: formano un continuum con caratteristiche aerodinamiche complesse che dipendono dall’ambiente. Peggio ancora: a volte la stessa parola, poniamo “aerosol”, assume un significato diverso a seconda del campo di studio. Proprio questa confusione ha spinto Milton a scrivere un articolo in cui chiarisce la terminologia usata nei vari campi di studio.

Quanto a me, in questo articolo ho deciso di chiamare droplet le particelle che una volta spruzzate fuori dalla bocca cadono subito a terra, e aerosol quelle che possono fluttuare in aria, indipendentemente dalle dimensioni. Questo perché il punto decisivo è se riescono a galleggiare nell’aria e a essere spostate, mentre resta ancora da definire qual è la dimensione-limite per distinguere i due tipi.

Del resto questo dibattito ha una storia lunga: dalla metà dell’ottocento al novecento inoltrato, gli esperti di malattie infettive dovettero combattere una battaglia contro le teorie dei miasmi, secondo cui all’origine delle malattie non c’erano i germi bensì la sporcizia e gli odori sgradevoli, e la vinsero con grande fatica. In uno studio spartiacque, pubblicato nel 1910, Charles Chapin, pioniere della sanità pubblica, distingueva le malattie tra quelle portate dallo spray (i droplet dell’Oms, che al massimo viaggiano per un paio di metri) e quelle portate dal pulviscolo, cioè diffuse dagli aerosol, o a trasmissione aerea. La conclusione di Chapin era che la maggior parte degli agenti patogeni o erano portati dallo spray oppure si diffondevano tramite il contatto. La sua paura era che fare troppo affidamento sulle teorie della trasmissione aerea avrebbe spaventato inutilmente le persone o le avrebbe spinte a trascurare la necessità di lavarsi le mani. Oggi, a più di un secolo di distanza, sentiamo ancora l’eco di quei timori.

Se considerassimo gli aerosol, avremmo indicazioni diverse per i locali chiusi

Esistono anche vari tipi di trasmissione aerea (questa espressione può suonare più preoccupante di quanto sia in realtà e diventare la base di un inutile allarmismo). Per esempio, alcune malattie che si trasmettono attraverso l’aria, come il morbillo, si diffondono in quasi ogni angolo delle case infettando prevedibilmente circa il 90 per cento di chi ci abita. Nel film Outbreak, che tratta proprio del panico da virus, a un certo punto il personaggio interpretato da Dustin Hoffman dice: “Viaggia in aria!”, riferendosi al motaba, il virus immaginario del film. Intende dire che si diffonderà in ogni angolo dell’ospedale attraverso le griglie di aerazione. Non tutte le malattie a trasmissione aerea, però, sono supercontagiose (ma ci torneremo più avanti): il Sars-cov-2 per lo più non si comporta come un agente patogeno superinfettivo.

Gli autori di molti lavori scientifici hanno riscontrato che il tasso di attacco secondario del covid-19, cioè la percentuale di contagi causati da un’unica persona in un ambiente circoscritto come un’abitazione o un dormitorio, a volte non supera il 10-20 per cento. Ed effettivamente molti studiosi mi hanno detto che il virus del covid-19 è meno contagioso di tanti altri agenti patogeni, tranne che negli eventi di superdiffusione, cioè quelle occasioni speciali in cui sembra scatenarsi infettando simultaneamente un gran numero di persone anche a distanze superiori ai due metri. Insomma, chi sostiene che questo coronavirus possa diffondersi seguendo le traiettorie degli aerosol sottolinea che tra le prove principali della sua trasmissione aerea ci sono la frequenza e le condizioni di questi eventi di superdiffusione.

Un’epidemiologa specializzata in malattie infettive, Saskia Popescu, insiste che non dobbiamo parlare di individui superdiffusori ma di eventi superdiffusori, perché a quanto pare si verificano in circostanze molto particolari. Si tratta di un dato importante. Le persone non emettono la stessa quantità di aerosol durante tutte le loro attività: per esempio cantando ne producono più che parlando, e parlando più che respirando. Inoltre alcune persone potrebbero essere delle superemettitrici di aerosol.

Ma non basta. I tre fattori che caratterizzano gli eventi superdiffusori sono luogo, ventilazione e vocalizzazione. Nella maggior parte dei casi avvengono in luoghi chiusi, specie se poco ventilati (cioè dove non c’è ricambio d’aria né filtraggio), in cui molte persone parlano o cantano: ristoranti, bar, club, sale dove si canta in coro, matrimoni, funerali, navi da crociera, case di riposo, carceri e stabilimenti per la lavorazione della carne.

Colpisce che in un database con più di 1.200 eventi superdiffusori solo uno è classificato come trasmissione all’aperto (tra due compagni di jogging) e solo 39 sono classificati come eventi “all’aperto/al chiuso”, nei quali cioè non è detto che l’essere all’aperto abbia svolto un ruolo, ma non si può neanche escluderlo. Tutti gli altri casi sono avvenuti al chiuso e molti hanno coinvolto simultaneamente decine o centinaia di persone.

Il più grande cinema di Varsavia, Polonia, aprile 2020. (Rafal Milach, Magnum/Contrasto)

Gli stessi risultati sono emersi da studi diversi: gli eventi di superdiffusione si verificano nella stragrande maggioranza in ambienti chiusi dove ci sono molte persone. Il direttore del dipartimento di epidemiologia e biostatistica della scuola di sanità pubblica dell’università di Hong Kong, Benjamin Cowling, cita il caso di un ristorante di Guangzhou, in Cina, dove un malato di covid-19, ancora asintomatico, ha infettato nove persone, molte delle quali occupavano altri tavoli ma si trovavano lungo la traiettoria del condizionatore che soffiava aria da un’estremità all’altra del locale. Degli altri tavoli, vicini ma non sottovento, neanche una persona è stata contagiata. Per di più, dai filmati delle videocamere di sorveglianza di quel giorno si vede che i clienti seduti ai tavoli infettati non hanno minimamente interagito con il malato. Dunque è stata l’aria. Infatti, quando i colleghi di Cowling hanno analizzato la dinamica dei fluidi di quel focolaio, hanno scoperto che il condizionatore soffiava l’aria in una certa direzione; l’aria veniva spinta contro una parete e rimbalzava tornando in circolo. Insomma, i tavoli sfortunati erano intrappolati sottovento e l’aria infetta, per ripetere le parole di Cowling, “andava di continuo avanti e indietro”.

A Skagit, negli Stati Uniti, alle prove di un coro di 61 elementi, una sola persona ne ha contagiate 32 (a cui forse vanno aggiunte altre venti). Un caso sorprendente c’è stato in un call center della Corea: delle 216 persone che lavoravano a un piano dello stabile, 94 hanno contratto l’infezione. I casi si sono concentrati a un lato del piano, ma a distanza anche di venti postazioni, se non alle pareti opposte. Agli altri piani sono state contagiate solo tre persone, anche se i dipendenti condividevano l’atrio d’ingresso e gli ascensori. Ciò a ulteriore dimostrazione che le superfici non sono grandi diffusori del virus ma le sacche d’aria condivise possono esserlo, quasi indipendentemente dalle distanze.

Rispetto a questi eventi di superdiffusione, Milton dice che “bisogna davvero impegnarsi molto per sostenere che il virus si sia trasmesso per altre vie rispetto all’aria”. Tuttavia, non sono solo gli eventi superdiffusori a verificarsi al chiuso: anche quando il Sars-cov-2 si diffonde lentamente e a un piccolo numero di persone, nella stragrande maggioranza dei casi lo fa al chiuso. Milton ha sottolineato che se la via principale di trasmissione fossero i droplet spruzzati, dovremmo aspettarci una malattia trasmessa di più all’aperto, visto che i droplet sono emessi con una certa forza e cadono sulle persone. Invece non sembra che sia così. E anche se a ridurre la trasmissione all’aperto fosse la luce solare, che notoriamente disattiva i virus, comunque dovremmo aspettarci un contagio all’aperto molto più alto di quello registrato. Invece gli epidemiologi stanno osservando che il virus ci pedina quando ci troviamo al chiuso.

Un indizio importante
Ci sono poi le evidenze provenienti da prassi e contesti sanitari. Hitoshi Oshitani, docente di virologia all’università del Tōhoku, in Giappone, mi ha confermato che a bordo della nave da crociera Diamond Princess le persone che gestivano la quarantena sono state contagiate anche se avevano seguito le precauzioni standard contro i droplet e i contatti ravvicinati. È stato un indizio importante, che ha aiutato gli scienziati giapponesi a comprendere il ruolo decisivo degli aerosol. “Erano dei professionisti”, ha osservato Oshitani, intendendo dire che è improbabile che abbiano commesso disattenzioni, mentre è più probabile che la malattia si sia comportata in modo inatteso.

Da un recente studio non ancora pubblicato emerge che gli operatori sanitari del Regno Unito, dove gli ospedali sono più vecchi e i sistemi di ventilazione più scadenti, si sono ammalati a ritmi più sostenuti rispetto ai loro colleghi degli Stati Uniti, dove molti ospedali sono già dotati di misure per ridurre i danni di una ventilazione inadeguata. In uno studio appena pubblicato da Nature, gli autori riferiscono di aver trovato dell’Rna virale in più della metà dei campioni d’aria prelevati in un ospedale, compresi gli ambulatori frequentati da pazienti esterni e i corridoi. Resta da capire quanto possano essere state contagiose quelle particelle, ma per Linsey Marr è significativo che “il 100 per cento dei campioni prelevati dal pavimento sotto il letto e da tutti i davanzali salvo uno fosse positivo all’Rna virale: ciò indica che il virus è stato trasportato dall’aria e si è poi posato su quelle superfici”.

Tuttavia a oggi non ci sono prove della trasmissione del covid-19 a lunga distanza né di una diffusione che segua il modello di quella del morbillo. Strillare “viaggia nell’aria!” può dare l’impressione sbagliata a un pubblico già estenuato e in preda al panico, ed è questo uno dei motivi per cui alcuni esperti di salute pubblica mettono in guardia dall’usare questa espressione, a volte anche quando concordano sulla possibilità di trasmissione tramite gli aerosol. Secondo Cowling, per comunicare con maggiore esattezza sarebbe meglio chiamarli “aerosol a corto raggio”: la maggior parte di queste particelle si concentra intorno alla persona contagiata, ma in determinate circostanze possono accumularsi e circolare.

Questo ha molte conseguenze pratiche. Per Marr, se gli aerosol sono decisivi dobbiamo fare attenzione alla ventilazione non meno che al distanziamento, alle mascherine e al lavare spesso le mani, tutti elementi giudicati importanti dagli esperti. Come mi ha detto il virologo Ryan McNamara dell’università del North Carolina, più strumenti abbiamo da usare contro il virus meglio è. Tuttavia resta importante che i cittadini assimilino il giusto modello mentale, alla base di tutte le strategie di contenimento, perché non tutte queste protezioni, la cui utilità è universalmente riconosciuta, si comportano allo stesso modo in presenza di aerosol. Per esempio le linee guida dell’Oms non raccomandano l’uso della mascherina al chiuso, purché sia possibile mantenere la distanza di un metro. Anche i Cdc nelle loro linee guida sull’uso della mascherina fanno pochissimi riferimenti alla distinzione fra trasmissione al chiuso e all’aperto, e raccomandano l’uso della mascherina in tutte le circostanze pubbliche, “specie quando è difficile attenersi alle altre misure di distanziamento sociale”.

Ma se pensiamo agli aerosol il distanziamento al chiuso non ci protegge come vorremmo, visto per esempio che quando si mangia e si beve, quindi non si porta la mascherina, si tende comunemente a conversare. I Cdc lo riconoscono quando raccomandano di incontrarsi e fare riunioni all’aperto, anche se ufficialmente continuano a sostenere la tesi della trasmissione attraverso i droplet.

Evitare il trenino
Se considerassimo gli aerosol, avremmo indicazioni diverse per i locali chiusi e gli incontri all’aperto, dato che, oltre a diluirsi nell’aria, i virus sono rapidamente disattivati dalla luce solare. Renderemmo obbligatorio l’uso della mascherina al chiuso, indipendentemente dal distanziamento, mentre all’aperto potrebbe non servire. Marr mi ha confidato che all’aperto porta sempre la mascherina solo se interagisce con altre persone, se si trova in mezzo a un gruppo numeroso o se non è possibile mantenere le distanze.

In molte località degli Stati Uniti, invece, la mascherina è obbligatoria sia al chiuso sia all’aperto in base alle stesse regole, il che costringe a indossarla anche quando si esce da soli a portare a spasso il cane. Ci sono addirittura posti, come Chicago, dove le spiagge sono state chiuse perché le autorità temono gli assembramenti, mentre restano aperti, e con restrizioni moderate, i ristoranti al chiuso e le palestre.

Un altro esempio: avrete forse visto i numerosi programmi tv al chiuso in cui il pubblico è seduto, rispettando educatamente le distanze e portando la mascherina, mentre la persona che parla è l’unica a non portarla. Jimenez, che studia gli aerosol, mi ha fatto notare che si tratta di una situazione inaccettabile perché è soprattutto chi parla, non chi ascolta, che dovrebbe tenere la mascherina: insomma, se in studio fosse disponibile un’unica mascherina, dovrebbe indossarla chi parla. Questo è di particolare importanza perché le mascherine in tessuto sono molto efficienti nel bloccare i droplet (specie prima che evaporino e, diventando più piccoli, abbiano maggiori probabilità di galleggiare nell’aria), ma molto meno (anche se a qualcosa servono) nel proteggere la bocca e il naso dagli aerosol galleggianti all’interno di un locale. Si potrebbe ribattere: “Vogliamo vedere la bocca di chi sta parlando”. Certo, ma se smettiamo di ignorare il problema possiamo trovare soluzioni creative, per esempio visiere protettive trasparenti, mascherine con porzioni trasparenti ma sempre in grado di filtrare.

Anzi, progettare una maschera o una visiera trasparente ad alta filtrazione potrebbe essere una soluzione importante anche per garantire la sicurezza degli insegnanti nelle aule scolastiche.

Quando rivolgiamo la nostra attenzione al flusso d’aria cominciamo a valutare in modo diverso molti altri rischi. Dylan Morris, che sta facendo un dottorato a Princeton e con altri ha scritto il primo lavoro scientifico in cui si conferma che (in condizioni sperimentali) il virus può restare infettivo in forma di aerosol, mi ha mostrato un video in cui delle persone ballano la conga cubana facendo il trenino ma distanziate da due metri circa di corda. Ballano allegramente una dietro l’altra, mettendosi sulla scia, proprio dove non bisogna stare, perché tutte quelle persone ansimanti emettono nuvole di aerosol.

Allo stesso modo Jimenez nota che, quando parla in pubblico una persona con la mascherina, il punto meno sicuro di tutti potrebbe essere al suo fianco o alle sue spalle, perché lì gli aerosol potrebbero sfuggire alla mascherina, invece, considerando i droplet, tenderemmo a ritenere rischioso solo starle di fronte. L’importanza degli aerosol può spiegare perfino perché la malattia stia conoscendo una vera esplosione nel sud degli Stati Uniti, dove la gente, per sottrarsi al caldo opprimente, spesso va dove c’è l’aria condizionata.

Diluire o filtrare
Infine, tutto questo avrebbe implicazioni per chi assiste i malati di covid-19, soprattutto fuori dagli ospedali. Negli ambienti sanitari statunitensi alcune precauzioni contro gli aerosol sono già state prese, in parte perché gli operatori sanitari fanno procedure, come l’intubazione, che generano aerosol anche se la malattia tende a non crearne molti (gran parte delle linee guida contro il covid-19, comprese quelle dell’Oms e dei Cdc, ha riconosciuto fin dall’inizio che gli aerosol sono un rischio negli ambienti sanitari, il disaccordo da sempre è su una trasmissione sistematica via aerosol nelle situazioni quotidiane). Tuttavia fuori dagli ospedali ammettere i rischi dovuti agli aerosol vorrebbe dire fornire a chi assiste i malati di covid-19 a domicilio, o a chiunque sia ad alto rischio, come gli immunodepressi, mascherine come le N-95 (standard statunitense equivalente all’europeo Ffp2), più efficaci nell’impedire il passaggio degli aerosol.

Per contrastare la scarsa ventilazione e la diffusione di aerosol carichi di virus al chiuso, le strategie sono due: diluire la presenza delle particelle virali cambiando l’aria nel locale oppure rimuovere le particelle virali dall’aria con filtri. Pensiamo alle scuole, che per milioni di persone sono il posto più critico: le aule scolastiche sono luoghi dove si parla molto; i più giovani non sono certo i più ligi al distanziamento sociale; e più gente c’è in un locale, più gli aerosol possono accumularsi, se la ventilazione è scarsa. Gran parte di questi problemi di ventilazione si può risolvere, a volte con metodi gratuiti o poco costosi, a volte con grandi investimenti nelle infrastrutture, che dovrebbero essere una priorità nazionale. A luglio ho fatto un giro nella scuola elementare pubblica del mio quartiere pensando a cosa potremmo fare contro la trasmissione via aerosol. L’edificio è a un piano solo, tutte le aule hanno finestre, alcune hanno porte che si aprono direttamente sull’esterno e molte si affacciano su un cortile pavimentato in ce mento. La didattica potrebbe essere spostata all’esterno, almeno per una parte delle ore, come si fece durante la pandemia del 1918. Quando le lezioni si svolgono al chiuso, o nelle giornate di pioggia, aprire porte e finestre migliorerebbe di gran lunga la circolazione dell’aria all’interno delle aule, specie se queste avessero alle finestre dei ventilatori che spingono fuori l’aria. E se è impossibile aprire le finestre, le aule potrebbero essere dotate di filtri Hepa portatili, che costano appena qualche centinaio di dollari ma sono in grado di intrappolare virus molto piccoli.

Marr consiglia alle scuole di misurare i flussi di aria in ogni aula, di usare filtri più efficienti e sforzarsi di raggiungere o superare gli standard fissati dall’American society of heating, refrigerating and air-conditioning engineers (Ashrae), l’associazione di categoria che negli Stati Uniti stabilisce le linee guida e i parametri per tutti i sistemi di riscaldamento, ventilazione e climatizzazione. Come ho saputo dallo stesso Jimenez, molti sistemi di condizionamento dell’aria centralizzati hanno un comando per controllare la quantità di aria che prelevano dall’esterno, di solito limitata per massimizzare l’efficienza energetica. Ma durante una pandemia è più importante salvare vite che risparmiare energia: quindi le scuole con sistemi che hanno questi comandi potrebbero usarli per cambiare l’aria il più possibile. Lui stesso ha convinto la sua università a farlo.

Jimenez si è chiesto perché gli Stati Uniti non abbiano impiegato la guardia nazionale per allestire in tutto il paese delle tensostrutture non sigillate che lasciassero entrare l’aria (come i baldacchini sotto cui si celebrano certe nozze all’aperto) da usare come aule, e perché non abbiano avviato la produzione di massa di filtri Hepa per le scuole.

Un esperto di qualità dell’aria ha addirittura riferito che gli insegnanti disposti a comprare filtri Hepa portatili si sono sentiti dire che non potevano, perché i filtri non erano contemplati nelle raccomandazioni dei Cdc. Al mio supermercato è ancora difficile trovare salviettine disinfettanti, ma dalle mie ricerche su internet risulta che i filtri Hepa portatili ci sono in abbondanza, nessuno si sta precipitando a farne in-cetta.

Per esempio, ai giapponesi è stato consigliato di non parlare nel métro

Alcuni paesi hanno resistito alla tentazione di ignorare gli aerosol a corto raggio. In Giappone, mi ha detto Oshitani, gli studiosi hanno preso sul serio fin dall’inizio la trasmissione attraverso aerosol a corto raggio e si sono concentrati sui pochi eventi che hanno diffuso il covid-19 a un gran numero di persone. Lo stesso mi ha detto il professor Cowling dell’università di Hong Kong: secondo lui, gli aerosol a corto raggio e gli eventi superdiffusori sono stati la principale via di contagio.

Molti prevedevano che il Giappone sarebbe entrato in crisi visto che ha risposto al virus in modo poco convenzionale: non ha seguito le linee guida dell’Oms, ha evitato i test generalizzati e lockdown ufficiali. Ma in Giappone la mascherina era obbligatoria già nelle prime fasi; si è data priorità agli eventi superdiffusori. Infine, cosa decisiva, ai cittadini è stato detto di evitare tre cose: gli spazi chiusi, i luoghi affollati e le conversazioni a contatto ravvicinato, cioè le situazioni in cui la trasmissione aerea e gli aerosol potevano costituire un rischio.

Per esempio, è stato consigliato di non parlare nel metrò, dove le finestre venivano tenute aperte. Oshitani mi ha anche detto che le autorità giapponesi hanno messo a punto linee guida che sottolineano l’importanza della ventilazione in vari ambienti, come bar, ristoranti e palestre. A sei mesi di distanza, pur avendo avuto dei focolai molto presto, e nonostante abbia città molto densamente popolate e un’età media molto alta, il Giappone ha registrato in totale circa mille morti per covid-19, un numero che gli Stati Uniti hanno raggiunto più volte in un giorno solo. Un’altra città densamente popolata e dipendente dalla metropolitana, Hong Kong, ha contato solo 24 morti.

Le conoscenze scientifiche in materia di aerosol non sono definitive, come riconoscono i firmatari della lettera aperta all’Oms. Angela Rasmussen, la virologa della Columbia university, ha elencato le molte cose che amerebbe sapere sulla trasmissione aerea: quanto virus contiene ogni droplet; se tra le persone infette alcune trasmettono più virus di altre, e in che fase dell’infezione; se il virus è più concentrato nei nuclei dei droplet e qual è la dose infettiva. Tuttavia, quando si è di fronte a una pandemia, si è costretti ad agire anche se le informazioni di cui si dispone sono imperfette. I firmatari della lettera aperta sottolineano infatti che “dobbiamo mettere mano a ogni strategia potenzialmente importante per rallentare la diffusione del covid-19”, anche se le evidenze sono incomplete; e questo soprattutto perché alcune misure preventive sono semplicissime, come aprire le finestre e spostarsi all’esterno. Questa strada è particolarmente decisiva perché le strategie di mitigazione sono cumulabili, cioè più ne abbiamo a disposizione e ne adottiamo, più sono efficaci.

La posta in gioco
In un periodo in cui non abbiamo tutte le risposte c’è molto in gioco. Io sono risultata negativa al tampone e quindi non ho dovuto preoccuparmene, ma mi immagino un mondo alternativo dove gli aerosol fossero presi sul serio. Se fossi risultata positiva, sarei stata spedita a casa con rigorose istruzioni tra cui aprire le finestre, procurarmi un filtro Hepa, far portare mascherine N-95 ai miei conviventi. Ma soprattutto non sarei stata consapevole che starmi a due metri di distanza poteva non bastare.

Marr mi ha detto di avere, “con imbarazzo”, trasferito i suoi figli in una scuola privata perché lì i dirigenti le hanno dimostrato di prendere sul serio non solo l’obbligo di mascherina e il distanziamento sociale, ma anche “una buona ventilazione”. Non tutte le scuole dispongono delle risorse necessarie, ma forse è proprio quello che bisognerebbe assicurargli. Se i firmatari della lettera aperta all’Oms hanno ragione, è bene aggiungere la ventilazione al nostro kit di precauzioni, facendo tutto il necessario, dall’adottare filtri dell’aria efficaci all’aprire le finestre che abbiamo a portata di mano.

(Traduzione di Marina Astrologo)

Da sapere

◆ Negli Stati Uniti la sanificazione delle superfici è diventata un’ossessione, scrive l’Atlantic: la metropolitana di New York chiude ogni sera (non era mai successo in 116 anni di attività) per spruzzare ogni tipo di antisettico su sedili, pali e pareti; una famosa catena di palestre assicura che “non c’è superficie che non sia disinfettata”. “E se questa campagna per eliminare il virus da ogni superficie del paese fosse solo una perdita di tempo?”, si chiede il mensile citando i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, che a maggio hanno aggiornato le linee guida chiarendo che “toccare le superfici non è considerato uno dei principali veicoli di contagio”. Il covid-19 ha risvegliato la tendenza degli statunitensi a riversare l’ansia nella direzione sbagliata, seguendo in modo ossessivo rituali che fanno sentire più sicuri ma che servono poco a ridurre davvero il rischio. “Gli scienziati non sanno ancora abbastanza della malattia, ma su una cosa concordano: il virus si trasmette per via aerea. Il contagio attraverso le superfici sembra abbastanza raro (ma non impossibile). Lavarsi spesso le mani, evitare di toccarsi il viso quando si è in luoghi pubblici, e in alcuni casi usare i guanti è importante. Ma l’ossessione per l’igiene rischia di distrarre da altri modi più efficaci di contenere il virus, e di creare un senso di falsa sicurezza che fa abbassare la guardia. Per esempio molti bar, ristoranti al chiuso e palestre dove i clienti ansimano e sbuffano aria viziata non possono pensare di garantire la sicurezza semplicemente sanificando in continuazione le superfici”.


Questo articolo è uscito sul numero 1373 di Internazionale.

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