È dai tempi del referendum sull’uscita dall’Unione europea del giugno 2016 che i più ottimisti tra gli sconfitti hanno fatto pressione perché venisse organizzata una rivincita. Alcuni sostengono la necessità di una ripetizione sulla base del fatto che i fautori della Brexit hanno mentito durante la campagna elettorale, infrangendo la legge elettorale (il 17 luglio la commissione elettorale ha inflitto alla campagna ufficiale per l’uscita dall’Ue una multa da ottantamila dollari per aver deliberatamente ecceduto il tetto di spesa).

Altri sostengono che la popolazione abbia diritto alla possibilità di votare sull’accordo finale, che somiglierà poco all’allettante versione che era stata loro promessa. Eppure l’idea di un secondo referendum non è mai decollata. I sondaggi hanno rilevato solo una leggera variazione d’opinione a favore della permanenza nell’Ue e non c’è grande entusiasmo per un nuovo plebiscito, che sarebbe il quattro appuntamento elettorale su scala nazionale in altrettanti anni.

Ma l’idea di organizzare un nuovo referendum è di nuovo d’attualità. Per legge il governo di Theresa May non può approvare un accordo sulla Brexit senza l’approvazione dei parlamentari. E da due settimane appare sempre più probabile che il parlamento rifiuterà ogni accordo. L’opposizione laburista ha stabilito sei condizioni che renderebbero accettabile l’accordo, e che sembrano concepite per essere impossibili da approvare. Il partito conservatore, nel frattempo, è d’umore ribelle.

Il Regno Unito potrebbe uscire bruscamente dall’Ue il 29 marzo senza alcun accordo

Questa settimana i tory che sostengono una Brexit dura hanno obbligato il governo a inasprire la sua posizione sulle questioni doganali, mentre una fazione di tory favorevoli alla permanenza in Europa lo forzava ad alleggerire la sua politica di regolamentazione in materia sanitaria. Altre sconfitte parlamentari sono state evitate di misura, in un caso per appena tre voti. È difficile immaginare che i parlamentari accettino il poco attraente accordo che May verosimilmente porterà da Bruxelles alla fine dell’anno. E, se non lo faranno, il Regno Unito potrebbe semplicemente uscire bruscamente dall’Ue il 29 marzo senza alcun accordo.

In molti a Westminster si chiedono quindi se l’unica possibilità di uscire dall’impasse sia rimettere la questione nelle mani della popolazione. Una soluzione potrebbero essere nuove elezioni. I portavoce del partito conservatore avrebbero detto ai loro parlamentari che il governo è deciso a convocare un nuovo scrutinio nel corso dell’estate, qualora questi si fossero opposti ad alcuni passaggi chiave del suo piano per la Brexit. Ma è verosimile che May, nota per i suoi insuccessi elettorali, corra un rischio simile? Secondo i sondaggi il partito laburista è leggermente avanti ai conservatori. In ogni caso una vittoria di misura di qualsiasi dei due partiti rischia di non risolvere l’attuale stallo parlamentare, poiché anche i laburisti sono divisi su quale sia il migliore approccio alla Brexit.

L’idea di un secondo referendum viene quindi proposta come un modo per ottenere una risposta chiara. Il 16 luglio Justine Greening, una degli ex ministri di Theresa May, ha proposto un referendum con tre opzioni: rimanere nell’Ue, accettare l’accordo raggiunto da May a Bruxelles, oppure uscire senza alcun accordo.

Un simile voto presenta enormi problemi. Il parlamento dovrebbe legiferare l’indizione del referendum, un’operazione complicata nel momento in cui questo stesso parlamento è contrario a quello che sarebbe l’oggetto di tale consultazione, ovvero un accordo sulla Brexit. I laburisti affermano che il referendum non fa parte delle sue politiche e che tocca ai parlamentari risolvere questo caos. Ma ha lasciato aperto uno spiraglio: il 15 luglio Tom Watson, una figura di spicco del Partito laburista, ha dichiarato che “rinunciare totalmente all’idea di un secondo referendum, quando invece potrebbero esserci varie circostanze nelle quali il parlamento non sarebbe in grado di esprimere un voto chiaro, sarebbe un errore”. I nazionalisti scozzesi non sarebbero contrari a un secondo referendum e i liberal-democratici voterebbero a favore di esso (sempre che si ricordino di presentarsi in parlamento, visto che il loro leader era assente a un fondamentale voto sulla Brexit questa settimana). May ha rifiutato l’idea anche se, naturalmente, aveva fatto lo stesso anche con la prospettiva di elezioni anticipate due anni fa.

Ci sarebbe poco tempo per organizzare una nuova consultazione. Sono serviti vari mesi per approvare la proposta di legge sul primo referendum. Questo processo potrebbe essere accelerato, soprattutto adesso che il Regno Unito può contare sull’esperienza organizzativa maturata durante il primo referendum, sostiene Eloise Todd di Best for Britain, che reclama un secondo referendum. Ma Londra dovrebbe quasi sicuramente chiedere più tempo all’Ue. Quest’ultima probabilmente accetterebbe, secondo Charles Grant del centro studi Centre for european reform, anche se preferirebbe risolvere la questione prima delle elezioni per il parlamento europeo, alla fine di maggio 2019.

Quali opzioni?
Se la cosa potrà essere fatta in tempo, quale sarebbe la domanda scritta sulla scheda elettorale? Il Regno Unito non ha mai avuto dei referendum a scelta multipla come quello che suggerisce Greening, anche se si tratta di una modalità nota in altri paesi. Nel 1931 ai finlandesi è stato chiesto se volevano abolire il divieto di consumare alcol, mantenerlo o annullarlo solo per le bevande più leggere (una maggioranza schiacciante scelse la prima ipotesi). Nel 1977 gli australiani hanno scelto il brano Advance Australia fair come loro inno nazionale, preferendolo ad altri tre.

La difficoltà risiede nel modo in cui verrebbe scelta l’opzione vincente. Peter Kellner, esperto di sondaggi e opinionista per la rivista Prospect, fa notare che una stessa serie di risultati potrebbe produrre tre esiti diversi, a seconda che si scelga un sistema maggioritario secco (che sceglie l’opzione che riceve la maggioranza di prime scelte), il voto alternativo (per cui l’elettore vota facendo una classifica delle sue preferenze: le seconde preferenze dell’opzione ultima classificata si aggiungono ai voti delle prime due classificate) o il sistema Condorcet (che premia il vincitore complessivo dei tre possibili scontri diretti testa a testa). Un sondaggio effettuato da YouGov per The Economist lo scorso mese, nel quale veniva chiesto agli elettori di esprimere un’ordine di preferenza tra Brexit dura, Brexit morbida e permanenza nell’Ue, ha riportato esattamente una situazione simile. Un secondo referendum potrebbe “di per sé determinare una crisi di legittimità democratica”, rileva Akash Paun del centro studi Institute for government. E un voto complesso aperto a interpretazioni multiple non sarebbe d’alcun aiuto in questa situazione.

Un simile referendum potrebbe anche spingere molti fautori della permanenza nell’Ue a rivedere la loro posizione. L’Ue avrebbe ad esempio meno incentivi a offrire un buon accordo qualora esistesse la possibilità d’indire un nuovo referendum, e anzi potrebbe offrirne uno cattivo, nella speranza che la Gran Bretagna scelga allora di restare nell’unione, come auspica la maggioranza degli eurocrati.

Un altro grandissimo rischio sarebbe quello d’inserire la possibilità di una totale mancanza di accordi nel referendum, poiché questo offrirebbe agli elettori una possibilità che nessuno, se non i più folli sostenitori della Brexit, sostiene. Greenings definisce una simile opzione un “taglio netto” col passato, un’espressione che Malcolm Barr della banca J.P. Morgan definisce una “erronea rappresentazione”. Commerciare con l’Unione Europea secondo i termini dell’Organizzazione mondiale del commercio è una cosa. Uscire dall’Ue senza alcun accordo su nulla, che si tratti di aviazione, diritti dei cittadini o materiali radioattivi, sarebbe decisamente peggio, e un taglio tutt’altro che salutare.

Man mano che le trattative con Bruxelles entreranno nella loro fase finale, i sostenitori della permanenza nell’Ue potrebbero essere esaltati dalla tenue possibilità di annullare la Brexit. Tuttavia il prezzo da pagare, per una simile possibilità, è un aumento delle possibilità di uscire bruscamente dall’Ue, senza alcun accordo. May ha stupidamente trascorso gli ultimi due anni a portare avanti lo stesso bluff nei confronti di Bruxelles, sostenendo che “non avere accordi è meglio di un cattivo accordo”. C’è il grave rischio che i cittadini britannici la prendano alla lettera.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale The Economist.

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