Nel 1997 una ragazzina esile, nata in Cecoslovacchia e cresciuta in Svizzera, andò a un passo dall’impresa sportiva del decennio. A sedici anni arrivò al primo posto della classifica del tennis femminile mondiale e ci rimase con la leggerezza di una predestinata. Partecipò a 17 tornei del circuito Wta, giocando 76 partite e vincendone 71. Vinse tutte le partite dei tornei dello slam tranne una – la finale del Roland Garros –, una sconfitta che le impedì di diventare la quarta tennista della storia a completare il Grande Slam (cioè conquistare nello stesso anno i quattro tornei più importanti).

La sua solidità mentale e la perfezione del suo tennis quasi sconcertavano. Ma nella sua testa la ragazzina stava semplicemente recitando il copione che i suoi genitori avevano scritto per lei. Suo padre, Karol Hingis, era un buon tennista; sua madre, Melanie Molitorová, era un’ottima tennista, e le aveva dato il nome della più forte tennista cecoslovacca di tutti i tempi, Martina Navrátilová. A due anni le avevano messo in mano la racchetta, a quattro l’avevano iscritta al primo torneo. Nel 1987 Melanie aveva lasciato Karol ed era scappata dalla Cecoslovacchia comunista per emigrare in Svizzera, portandosi dietro la figlia di sette anni. Il trasferimento, per quanto traumatico, non aveva fermato il viaggio verso la gloria. A 12 Hingis diventò la più giovane tennista a vincere l’edizione junior di un torneo dello slam, a 14 entrò nel circuito professionistico.

Il 1997 sembrò lo sbocco naturale di questa corsa frenetica. E il punto più alto fu sicuramente il torneo di Wimbledon. Hingis arrivò in finale con un record di 43 vittorie e una sola sconfitta nella stagione e senza aver perso nemmeno un set nel torneo. Il 5 luglio scese in campo sul centrale contro Jana Novotná, una tennista (anche lei nata in Cecoslovacchia) che aveva quasi il doppio dei suoi anni e stava ancora cercando di vincere il suo primo torneo dello slam. Hingis cominciò giocando il peggior tennis della sua breve carriera. Novotná andò avanti 4 giochi a 0 e chiuse il set in appena 22 minuti. “Nel primo set mi sono sentita una principiante”, avrebbe detto Hingis dopo la partita. Sembrò di vedere le prime crepe nella corazza mentale di quella ragazzina precoce. Invece Hingis riuscì a dimenticare il primo set e cominciò a giocare una partita completamente diversa, in cui il suo tennis elegante e geometrico prese il sopravvento.

Nel video, prima dell’ultimo punto, si vede Hingis – che all’epoca non aveva ancora la coda e teneva a bada i capelli a caschetto con una grossa fascia rossa, bianca e verde – aspettare il servizio di Novotná con un mezzo sorriso.

Finale di Wimbledon del 1997.

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Dopo aver vinto Hingis non scoppia a piangere, non lascia cadere la racchetta, non si butta a terra come fanno tutti i tennisti e le tenniste che vincono Wimbledon per la prima volta: si limita ad alzare le braccia e a fare un paio di salti mentre va a rete a salutare la sua avversaria. Le due si scambiano qualche parola. In seguito Novotná riferirà quelle di Hingis: “Non ti preoccupare, al terzo tentativo avrai più fortuna”. È appena diventata la più giovane campionessa di Wimbledon dal 1887, ma per Hingis, come per sua madre che festeggia senza entusiasmo in tribuna, non è successo niente di straordinario, solo quello che doveva succedere.

Il giorno dopo la finale sul New York Times uscì un articolo che cominciava così: “Con il sorriso di una cheerleader e l’appetito di uno squalo, Martina Hingis è il simbolo di una nuova generazione di tenniste che non si fanno scrupoli ad azzannare la vecchia generazione”. L’idea che il mondo si era fatto di Hingis veniva scolpita sulle pagine del più influente giornale del mondo: raffinata e geniale in campo, arrogante e antipatica fuori.

È una fama che per la verità lei stessa aveva contribuito ad alimentare, fin da quando era bambina. Nel 1993, dodicenne, un giornalista le chiese di commentare le parole di Martina Navrátilová, che le aveva consigliato di non entrare nel circuito professionistico troppo presto. Hingis (la cui tennista preferita non era Navrátilová ma un’altra naturalizzata statunitense, la jugoslava Monica Seles) aveva risposto così: “Io non la giudico, perché invece lei mi giudica? Io non penso che lei sia troppo vecchia per giocare. Perché deve dire che sono troppo giovane?”.

Il paradosso del tennis
Nella seconda metà del 1997 Hingis confermò la sua superiorità. In quel periodo un allenatore la paragonò, per intelligenza e precocità, allo scacchista statunitense Bobby Fischer. Vinse lo Us Open, l’ultimo slam dell’anno, senza perdere nemmeno un set, umiliando in finale Venus Williams (6-0 6-4). Si dava per scontato che Hingis avrebbe dominato a lungo, e che prima o poi sarebbe riuscita a completare il Grande Slam. Invece la parte migliore della sua carriera era già finita, a 16 anni. All’inizio la discesa fu lenta: nel 1998 conquistò l’Australian Open, perse in semifinale al Roland Garros, in semifinale a Wimbledon contro Jana Novotná (che lì, come le aveva beffardamente pronosticato Hingis l’anno prima, vinse il suo primo e unico slam della carriera) e in finale allo Us Open contro Lindsay Davenport, una sconfitta che le fece perdere il primo posto nella classifica mondiale dopo 80 settimane consecutive.

Poi la discesa divenne un tracollo, uno dei più tristi della storia dello sport. Nel 1999 Hingis conquistò di nuovo l’Australian Open e a inizio giugno si ritrovò in finale del Roland Garros contro Steffi Graf. Vinse il primo set e nel secondo, con la partita in pugno, perse inspiegabilmente il controllo. La sua arroganza, che di solito si manifestava solo fuori dal campo, prese il sopravvento sulla lucidità del suo gioco. Cominciò a discutere con gli arbitri e colpì dei servizi dal basso, in segno di protesta. Il pubblico si schierò contro di lei, forse anche ricordando quello che mesi prima aveva detto di Graf: “Steffi ha fatto dei buoni risultati in passato, ma oggi il gioco è più veloce. Lei è vecchia, ha fatto il suo tempo”. Graf vinse in rimonta il secondo set e conquistò facilmente il terzo.

A fine partita Hingis si andò a nascondere negli spogliatoi. Tornò in campo per la premiazione, piangendo e avvinghiata al collo di sua madre. Dopo aver ritirato la coppa, Graf si rivolse a lei dicendole di non preoccuparsi, era una grande tennista e avrebbe sicuramente vinto il Roland Garros in futuro. L’aspetto più triste non è che Hingis non vinse mai più un torneo dello slam in singolare, ma che quel tracollo emotivo sia diventato per molte persone il momento più riconoscibile della sua carriera.

Finale del Roland Garros 1999.

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Pensò di darsi una scossa allontanandosi dalla madre, per diventare finalmente adulta, ma non funzionò. A Wimbledon perse 6-2 6-0 al primo turno contro Jelena Dokić, australiana di 16 anni, e si capì che nella sua corsa frenetica verso la gloria aveva imboccato un vicolo cieco. All’inizio del 2003, dopo una serie di infortuni e mentre cominciava il dominio delle sorelle Williams, si ritirò, a 22 anni. Il paragone con Bobby Fischer sembrò combaciare anche nella parte più dolorosa, quella dello smarrimento e della solitudine.

Come altri, Hingis ha sbattuto contro un grande paradosso del tennis: è lo sport che più di tutti consente ai talenti di emergere giovani, all’età in cui difficilmente un calciatore giocherebbe in serie A o un cestista in Nba; ma è anche un gioco individuale, in cui il peso della vittoria e della sconfitta è interamente sulle spalle di una persona che può non essere pronta a sopportare quella pressione.

Qualche anno dopo il ritiro Hingis è tornata a giocare, più serena e più umile. Il pubblico ha cominciato a fare il tifo per lei: non era più lo squalo arrogante di un tempo ma una ragazza che cercava di meritarsi una seconda possibilità. Ha trovato la sua fortuna nei tornei in doppio e doppio misto, e forse si può intuire il perché. È una modalità di gioco in cui l’intelligenza tattica e la precisione dei colpi contano più della forza fisica. E, soprattutto, non si è da soli a gestire tutto il peso della vittoria o della sconfitta.

(Testo di Federico Ferrone e Alessio Marchionna)

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