Come già nel decennio precedente, la strada per la sfida che avrebbe determinato il campione del mondo di scacchi del 1927 si rivelò piuttosto tortuosa. La prima guerra mondiale aveva scombinato in parte le carte, rendendo più difficile organizzare i tornei e facendo emergere una nuova leva di scacchisti.
Nel 1921 il cubano José Raúl Capablanca aveva strappato il titolo a Emanuel Lasker, che, grazie a una striscia di sette vittorie, lo deteneva ininterrottamente dal 1894. Negli anni successivi il suo astro non aveva smesso di brillare, complice anche la difficoltà logistica di raccogliere il denaro necessario a organizzare un incontro che avrebbe consacrato un nuovo campione mondiale.
Figlio di un ufficiale spagnolo, Capablanca aveva presto abbandonato gli studi alla Columbia University di New York per dedicarsi agli scacchi. Genio assoluto e precoce (aveva imparato a giocare a 4 anni osservando le partite del padre con gli amici, e a 13 era diventato campione nazionale cubano), specializzato nelle partite contro più avversari simultaneamente, fortissimo nei finali di partita, aveva tentato per un decennio di ottenere da Lasker l’onore di una sfida mondiale, riuscendovi appunto nel 1921 e continuando a dominare la disciplina negli anni successivi.
Nel 1927, grazie alla munificenza dei circoli scacchistici di Buenos Aires e all’intercessione del governo argentino (all’epoca guidato dall’Unione civica radicale del presidente Marcelo Torcuato de Alvear, grande appassionato del gioco), si giunse a una soluzione organizzativa. A inizio anno venne organizzato un torneo a New York: il vincitore avrebbe avuto la possibilità di sfidare, da settembre in poi, il campione in carica. Qualora a vincere fosse stato quest’ultimo, a sfidarlo per il titolo sarebbe stato il secondo classificato. Ad aggiudicarsi il torneo di New York fu, manco a dirlo, Capablanca. Molto dietro di lui, ma comunque secondo, si piazzò il russo Aleksandr Alechin.
Cresciuto in una famiglia della piccola nobiltà russa, legato alla nuova patria sovietica da sentimenti quantomeno tiepidi, per non dire ostili, Alechin aveva fatto capire fin da giovane di essere un giocatore eccezionale, ed era diventato uno dei candidati naturali a tentare la scalata al trono di Capablanca. Alechin era un personaggio complesso, tormentato, sinistro, con tratti di sadismo e un sospetto d’impotenza, probabilmente antisemita (molti grandi scacchisti del suo tempo – soprattutto di area russa o sovietica – erano di origine ebraica, come Lasker, Ossip Bernstein, Rudolf Spielmann, Akiba Rubinstein e Mikhail Botvinnik). Alla sua figura e al mistero della sua morte Paolo Maurensig ha dedicato il bellissimo libro Teoria delle ombre, uscito nel 2015.
La sfida andò avanti per 34 incontri, in un arco di tempo record di oltre due mesi, tra il settembre e il novembre del 1927
Fatto sta che Alechin arrivò a Buenos Aires con la fama di giocatore geniale e in ascesa, ma comunque decisamente sfavorito. È difficile credere che Capablanca, che con Alechin non aveva fino ad allora mai perso una partita, abbia sottovalutato l’avversario. Ma forse è proprio quello che accadde.
La sfida andò avanti per 34 incontri, in un arco di tempo record di oltre due mesi, tra il settembre e il novembre di quell’anno. Dopo un iniziale equilibrio, Capablanca passò in vantaggio alla settima partita, facendo credere a molti osservatori che le sorti della sfida fossero ormai segnate. Ma quel vantaggio venne cancellato da Alechin all’undicesima partita, segnata peraltro da errori plateali di entrambi i giocatori. Si arrivò così alla dodicesima, retrospettivamente decisiva e ritenuta dagli esperti la più brutta delle 34. Capablanca giocò una delle sue peggiori partite, commettendo errori inconsueti, ma è significativo che sia l’unica vittoria di quella serie che Alechin escluderà dal suo libro Le mie migliori partite.
Il russo (che durante i due mesi a Buenos Aires ottenne la naturalizzazione francese che cercava da tempo) non perse più il vantaggio guadagnato. La sfida si concluse con 6 vittorie di Alechin e 3 di Capablanca. Leggenda vuole che durante il momento decisivo di un confronto così sfibrante Capablanca, dopo essersi addormentato davanti alla scacchiera in attesa della mossa di Alechin, si sia svegliato e, constatata l’impossibilità di un recupero, si sia alzato in piedi ritirandosi dalla contesa.
Oggi è possibile rivivere qui il loro incontro per intero, mossa per mossa.
Capablanca sembrò accettare sportivamente la sconfitta. Il giorno dopo scrisse sul New York Times una lunga cronaca della partita. L’articolo è una miscela di narcisismo e umiltà, in cui il grande cubano parla di sé al plurale maiestatis, ricorrendo al we inglese “come Lindbergh”, precisano i redattori del quotidiano. Nel pezzo Capablanca rimpiange i bei tempi andati degli scacchi, ormai privati del loro lato artistico, ma elogia le capacità dell’avversario e ammette schiettamente la sua impreparazione. “Non siamo più forti come alcuni anni fa. L’incontro ha mostrato che non possiamo più comportarci come facevamo prima: ovvero accedere a una competizione senza alcun tipo di preparazione”, scrive in un passaggio dell’articolo.
Capablanca non ebbe mai l’occasione di dimostrare di aver tenuto fede a questo proposito in presenza di Alechin. A caldo il campione franco-russo si disse disposto ad accettare una rivincita, “ma non prima del 1929”. La rivincita non arriverà mai.
Gli anni che seguirono l’incontro di Buenos Aires sono avvolti dai misteri e dai rancori tra i due scacchisti. La rivincita fu più volte rimandata da Alechin, con motivazioni discutibili, e poi resa impossibile dallo scoppio della seconda guerra mondiale e infine dalla morte di entrambi i giocatori. Alechin, che nel frattempo si era fatto più paranoico e aveva intensificato le sue amicizie pericolose – per esempio quella con Hans Frank, il governatore della Polonia occupata dai nazisti –, morì in Portogallo nel 1946, in circostanze mai chiarite.
Quanto a Capablanca, solitamente signorile e di buon carattere secondo le testimonianze di molti, pare che perdesse le staffe e desse in escandescenza ogni volta che veniva evocato il nome di Alechin e si accennasse alla possibilità di una rivincita. Nel 1942, a 53 anni, fu colpito da un ictus e morì nello stesso ospedale newyorchese dove l’anno precedente era morto Emanuel Lasker, l’uomo a cui aveva strappato il titolo di campione del mondo, conservandolo fino alla sfida di Buenos Aires.
(Testo di Federico Ferrone e Alessio Marchionna)
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