Il patto sul clima tra Stati Uniti e Cina è importante ma simbolico
Articolo di Michael Marshall, Adam Vaughan, Jason Arunn Murugesu e Rowan Hooper
Mancano poche ore alla fine del vertice internazionale sul clima Cop26, a meno che i colloqui non vadano ai tempi supplementari, com’è successo altre volte. La situazione appare molto incerta. Non sappiamo ancora cosa conterrà il testo finale, perché i negoziatori lo stanno ancora scrivendo e riscrivendo. Ma, nel frattempo, non è mancata l’azione.
La grande notizia è stato l’annuncio di un patto tra gli Stati Uniti e la Cina, che rafforza la cooperazione climatica tra i due paesi. Entrambi hanno detto che collaboreranno per raggiungere l’obiettivo di contenere il riscaldamento a 1,5 gradi centigradi, come stabilito dall’accordo di Parigi. Prevedendo “l’adozione di azioni climatiche più decise e più ambiziose per gli anni venti di questo secolo”.
Cosa dobbiamo pensare? Da un lato c’è poca sostanza reale. La dichiarazione non include nuovi obiettivi specifici o finanziamenti. Il suo valore, quindi, è perlopiù simbolico.
D’altro canto questo valore simbolico è notevole. Le relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina sono piuttosto negative al momento, eppure i due governi si sono accordati. Questo sottolinea la gravità della crisi climatica e invia un messaggio implicito agli altri governi in lite tra loro, affinché risolvano i loro problemi: accettate questo dolore, fate quel che volete. ma voltate pagina. Resta da capire se questo porterà a risultati migliori per il vertice nel suo complesso.
Queste alleanze tendono a crescere nel tempo ed è quindi possibile che, se gli attivisti continueranno a fare pressione, altri paesi si uniscano
Questa incertezza è in realtà un elemento ricorrente in tutte le discussioni sulla Cop26. Secondo Ed King della Fondazione europea per il clima, con sede nei Paesi Bassi, “questo è un vertice incredibilmente difficile da definire. Ha una complessità estenuante, unica, e la gente si sta stancando”. Neanche gli esperti sono sicuri di quanto successo otterrà il vertice alla fine.
Una delle difficoltà è l’enorme numero di questioni discusse simultaneamente, dai tagli alle emissioni ai finanziamenti per le nazioni in via di sviluppo e molto altro. Allo stesso tempo, molti dei principali paesi hanno problemi interni che rendono difficile assumere impegni per azioni di grande portata. Come ha scritto la rivista Politico, “gli Stati Uniti sono ostacolati dal congresso… La Germania non ha ancora un governo; la Francia fa i conti con una delle sue elezioni presidenziali più incerte; il Regno Unito, attraverso il suo ministero del tesoro, ha appena avviata una politica d’austerità fiscale; il governo giapponese ha solo due settimane, e quello del Canada non è molto più vecchio”.
Questo concetto è ben espresso da Ed Miliband, il segretario di stato ombra del Regno Unito per le imprese, l’energia e la strategia industriale, nel suo colloquio con Jason Arunn Murugesu di New Scientist. “Non credo che nessuno nel governo abbia capito quanto sia complicata la faccenda”, ha detto Miliband. “Sono abituati a vertici in cui si arriva, si firma un comunicato – prendendo il minore impegno possibile – e poi si va via. Questo è invece un negoziato piuttosto fragile e incredibilmente complesso”.
Quanto fragile? Durante una conferenza stampa l’11 novembre, il negoziatore principale del Regno Unito, Archie Young, ha dichiarato che un paese non meglio precisato, parlando a nome di altri stati, ha suggerito di cancellare dalla bozza del testo “l’intera sezione” relativa al taglio delle emissioni.
Tagliare i combustibili fossili
Diversi paesi hanno aderito a un’alleanza che mira a fermare ogni futura produzione di petrolio e gas all’interno dei loro confini. Nota come Boga (Beyond oil and gas alliance, alleanza oltre il petrolio e il gas), questa iniziativa include Francia, Svezia e Irlanda, che si sono unite ai firmatari iniziali, Danimarca e Costa Rica.
Alcuni altri paesi hanno più o meno firmato, ma non in maniera definitiva. Portogallo, California e Nuova Zelanda si sono impegnati a fare “significativi e concreti passi avanti” per ridurre la produzione di petrolio e gas. L’Italia, il secondo maggiore produttore di petrolio dell’Unione europea, è diventata “amica” dell’accordo e dice che allineerà la futura estrazione di petrolio e gas a quanto previsto dall’accordo di Parigi del 2015.
E naturalmente ci sono alcune assenze notevoli. Il Regno Unito non ha firmato, anche se ospita la Cop26. Finora infatti l’alleanza Boga non include nessun paese che sia un grande produttore di petrolio e gas. Anche in questo caso, è tutto un po’ simbolico. Ma queste alleanze tendono a crescere nel tempo ed è quindi possibile che, se gli attivisti continueranno a fare pressione, altri paesi si uniscano.
Boga è l’ultimo di una serie di accordi per tagliare la produzione di combustibili fossili annunciati durante la Cop26. Ventitré paesi, per esempio, si sono impegnati a mettere fine a nuovi programmi di energia a carbone, e venti hanno promesso di smettere di finanziare l’estrazione di combustibili fossili oltre i loro confini. Il Canada sta poi pianificando di limitare le sue emissioni di petrolio e gas, e il Sudafrica ha redatto un accordo per eliminare gradualmente l’uso di carbone, oggi massiccio. E un gruppo di governi e dirigenti d’azienda si è impegnato a sviluppare rotte di navigazione verdi, con l’obiettivo di tagliare le enormi emissioni di gas serra dell’industria navale.
Fatto forse fondamentale, la prima bozza del testo finale della Cop26 include una richiesta di eliminare gradualmente il carbone e i combustibili fossili. Se la cosa verrà inclusa nella versione finale, si tratterà di un’importante svolta diplomatica.
Nel frattempo, a cosa portano tutti questi accordi collaterali? Secondo una nuova analisi di Climate Action Tracker, un ente scientifico indipendente senza scopo di lucro con sede in Germania, si tratta di un risultato significativo. I ricercatori hanno esaminato tutti gli accordi che sono stati firmati fino a ieri. Hanno poi stimato quanto gas serra sarà emesso nel 2030 se tutti saranno saranno messi in pratica, e confrontato la cosa con il livello di emissioni richiesto per raggiungere la soglia degli 1,5 gradi centigradi.
Hanno concluso che, nel 2030, i vari accordi ridurranno le nostre emissioni di 2,2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Ovvero un sacco di diossido di carbonio, ma pari ad appena il 9 per cento del taglio necessario a instradarci verso l’obiettivo degli 1,5 gradi. Come è stato ripetuto regolarmente questa settimana, un cambiamento del genere produrrà una reale differenza per le nostre vite, riducendo gli impatti peggiori del riscaldamento climatico. Ma molto di più resta ancora da fare. Non stiamo ancora attaccando il cuore del problema.
Concludiamo con un po’ di prospettiva storica. Uno studio pubblicato su Nature cerca di analizzare l’attuale riscaldamento climatico causato dall’uomo nel contesto di tutta la storia della Terra. I ricercatori, guidati da Matthew Osman dell’Università dell’Arizona, hanno ricostruito i cambiamenti della temperatura media globale negli ultimi 24mila anni. Questo significa che le registrazioni risalgono al cosiddetto Ultimo massimo glaciale: l’ultimo momento, in ordine di tempo, in cui sono cresciute delle lastre di ghiaccio lontano dai poli. Questa analisi si spinge a ritroso fino a un’epoca gelida precedente alla scrittura, all’avvento dell’agricoltura e prima degli animali domestici (tranne forse i cani).
Probabilmente avete già indovinato: sia il ritmo sia l’ampiezza del riscaldamento che viviamo oggi non hanno precedenti nell’intero lasso di 24mila anni. Sappiamo dagli anni novanta del novecento che l’attuale picco di riscaldamento è eccezionale – è questo il punto del famoso grafico a “mazza da hockey” – ma il nuovo studio illustra quanto eccezionale sia la cosa.
Cosa aspettarsi
I testi definitivi ci daranno un’idea più chiara dei risultati che saranno ottenuti.
Per quanto riguarda le notizie positive, c’è “molta più urgenza nel linguaggio, maggior senso di allarme, più di quanto abbia visto in qualsiasi testo precedente, e questo è ottimo”, riferisce Christiana Figueres, ex segretaria esecutiva della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. “Sono molto contenta inoltre che il testo riconosca che questo è il decennio fondamentale, e che dovremo dimezzare le emissioni entro il 2030. È un fatto nuovo e molto utile”.
E quindi forse, ma solo forse, tutta la faccenda si concluderà oggi. Ma dato che la prima bozza del testo è stata ritardata, e che lo stesso è accaduto per la versione rivista, meglio non contarci troppo. La Cop 26 potrebbe proseguire nel fine settimana. Non è un’opinione isolata: Figueres pensa lo stesso. “Visto il grado di maturazione del testo, non penso che la Cop finirà venerdì 12 novembre, penso che andrà a sabato 13 a causa, francamente, di un problema grande, anzi grandissimo: la finanza”.
(Traduzione di Federico Ferrone)