Negli anni ottanta, quando feci richiesta per una borsa di studio negli Stati Uniti, uno dei requisiti era aver superato il Toefl, l’esame d’inglese per stranieri. Lo sostenni all’American University del Cairo, affollatissima di giovani medici e ingegneri che, come me, avevano richiesto una borsa per studiare all’estero.

Quel giorno chiesi a quelli che incontravo se, potendo, avrebbero scelto di restare negli Stati Uniti, e la risposta fu un “sì” convinto. Pur di lasciare l’Egitto, molti di loro sarebbero andati in qualsiasi altro paese. Perché? Il motivo non era la povertà, perché impegnandosi sarebbero riusciti a trovare un lavoro e uno stipendio ragionevole, mentre a occidente spesso sarebbero stati costretti ad accettare lavori umili al di sotto della loro qualifica professionale. No, il motivo fondamentale era la sensazione che nel loro paese le ingiustizie fossero tali da rendere la situazione irrecuperabile: chi lavorava sodo non aveva mai la certezza di fare carriera, e la competenza non era il requisito per ottenere un buon impiego.

Tutto ciò che nei paesi democratici si guadagna grazie all’impegno e ai meriti, in Egitto si può ottenere grazie ai contatti personali e alla furbizia. Anzi, la bravura è un problema, meglio essere mediocri o incapaci: prima di tutto perché il sistema soffoca chi ha talento, secondo perché il futuro dipende molto più dagli agganci che dalle capacità di ognuno. In Egitto le persone capaci hanno tre possibilità.

Tre possibilità

Possono emigrare in un paese democratico che rispetta il merito e la competenza, e qui lavorare sodo fino a diventare come Mohamed el Baradei o Magdi Yacoub. Possono mettere il loro talento a disposizione del regime, accettando di esserne servi e diventare uno strumento di oppressione. Oppure possono decidere di salvare il loro onore, e allora subiranno la stessa sorte di Ibrahim Eissa.

Ibrahim Eissa è uno dei più dotati, onesti e coraggiosi giornalisti egiziani. Quasi senza risorse, ma con il suo talento eccezionale, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata in tutto il mondo arabo. E come ogni grande maestro, non si è accontentato della sua carriera, ma ha considerato suo dovere incoraggiare i più giovani. Ha accolto così nella redazione di Al Dustour decine di giovani reporter facendone i nuovi nomi del giornalismo nazionale.

Se Ibrahim Eissa vivesse in un paese democratico, ora sarebbe onorato e rispettato. Invece vive in Egitto, dove domina un regime autoritario che non permette a chi ha talento di rimanere fedele a se stesso. Ibrahim Eissa non si è opposto al governo: si è opposto al sistema. Ha invocato un cambiamento democratico reale attraverso libere elezioni. Ed è riuscito a fare di Al Dustour un vivaio importante di giovani giornalisti e una casa aperta a tutti gli egiziani censurati dagli altri quotidiani.

Il regime ha tentato in ogni modo di ridurlo al silenzio. Ha cercato di stancarlo con processi assurdi e querele infondate. Ha tentato di intimidirlo e poi ha cercato di comprarlo, commissionandogli programmi televisivi che gli avrebbero fatto guadagnare molti soldi. Ma non è servito a nulla: Ibrahim Eissa ha continuato a dire ciò che pensava e a fare ciò che diceva.

Un piano diabolico

A mano a mano che in Egitto aumentavano le pressioni sia popolari sia internazionali per un cambiamento democratico, il regime si è trovato in difficoltà e il suo nervosismo è cresciuto. Ibrahim Eissa è diventato intollerabile. A quel punto, per distruggerlo, è stato ideato un piano diabolico.

Per cominciare è entrato in scena un tale di nome Sayed Badawi, conosciuto solo come ricco proprietario dell’emittente televisiva Al Hayat (quindi vicino ad alti esponenti del regime). Badawi ha speso un sacco di soldi per conquistare la leadership del partito Wafd, e poi altri soldi per convincere il partito a recitare la parte della finta opposizione nella farsa delle prossime elezioni egiziane truccate. Poi ha comprato Al Dustour e dalla prima pagina ha assicurato che la linea politica del quotidiano non sarebbe cambiata.

Dopodiché, oltre a Badawi è saltato fuori un altro proprietario, un certo Reda Edward, il quale non si è mai occupato di giornali e vanta la sua fedeltà al regime. Dopodiché lo stesso giorno in cui la proprietà di Al Dustour è passata ufficialmente a Badawi, la sua prima decisione è stata licenziare Ibrahim Eissa. A quel punto è apparso chiaro che Badawi e Reda Edward erano semplicemente il modello più recente degli uomini di regime egiziani.

Allora chiediamo: perché tutte queste trame? Perché sprecare milioni per disfarsi di un giornalista onesto e di talento, che ha come unico capitale le sue idee e la sua penna? Perché il regime non ha investito tutti quegli sforzi per salvare dalla miseria milioni di egiziani? Al Dustour è finito, ma è passato alla storia dell’Egitto come un grande esperimento giornalistico e culturale. 

Ibrahim Eissa può fondare altre decine di giornali, e in Egitto comunque vinceranno il cambiamento, la verità e la giustizia. L’Egitto si è sollevato, e nessuno può ormai frapporsi tra il paese e il suo futuro. L’unica soluzione è la democrazia.

*Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 870, 29 ottobre 2010*

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