Dal 29 aprile l’Argentina ha ricominciato a pagare le rate del debito che aveva smesso di versare due anni fa. A febbraio ha ottenuto uno sconto da un tribunale statunitense, che le permette di tornare solvente nei confronti dei fondi avvoltoio. Buenos Aires ha messo fine a quattordici anni di cause con quegli speculatori che comprano titoli spazzatura di paesi e aziende sapendo che sono in bancarotta, per poi trascinarli in tribunale ed esigere il rimborso senza alcuna ristrutturazione del debito. Stavolta non hanno vinto. La normalizzazione finanziaria del paese sudamericano ha entusiasmato governi e investitori occidentali.
Per pagare i fondi avvoltoio, l’Argentina del liberale Mauricio Macri ha effettuato la più grande emissione di titoli di debito pubblico nella storia di un paese emergente, circa 16,5 miliardi di dollari. La domanda è stata quattro volte superiore all’offerta perché, pur pagando un tasso di interesse minore del previsto, ha promesso un 7,1 per cento in più dei paesi vicini come il Brasile, il Paraguay o la Bolivia, in un mondo di bassi rendimenti che fa disperare gli avidi operatori finanziari. Gli investitori dell’economia reale, invece, tardano a farsi vedere, pur elogiando le riforme che Macri ha intrapreso dopo dodici anni di governo dei Kirchner.
Una inedita coalizione sindacale
Il presidente argentino, che è stato imprenditore per buona parte dei suoi 57 anni e che da tredici si è dato alla politica, entusiasma i mercati. Secondo l’agenzia Management & Fit, però, la sua popolarità tra i cittadini è scesa dal 56 al 46 per cento in meno di cinque mesi di governo.
Il 29 aprile, lo stesso giorno in cui il paese usciva dal default, il malcontento si è espresso in una manifestazione organizzata da quattro delle cinque sigle sindacali dell’Argentina, che ha il più alto numero di iscritti ai sindacati di tutta l’America Latina. Centinaia di migliaia di lavoratori hanno protestato contro l’impennata dell’inflazione (arrivata al 35 per cento a marzo), contro gli aumenti delle tariffe dei servizi pubblici dovuti ai tagli alle sovvenzioni statali, contro l’ondata di licenziamenti nel settore pubblico e privato (127mila nel primo trimestre del 2016, secondo l’agenzia Tendencias económicas) e hanno chiesto l’abbassamento delle imposte sul reddito e un aumento delle pensioni.
I tagli di Macri hanno unito nella stessa protesta sindacati kirchneristi e antikirchneristi, che da decine di anni erano in contrasto. Più o meno lo stesso accadde con la peronista Cristina Fernández de Kirchner, che nel 2008 aumentò le tasse per il settore agricolo e ottenne l’effetto di compattare in un’unica opposizione i grandi proprietari terrieri e i piccoli agricoltori, che da almeno un secolo erano su barricate opposte. Allora, proprio l’unità nel settore agricolo portò alla sconfitta del kirchnerismo alle elezioni legislative del 2009. Bisognerà vedere se l’unità tra i sindacati avrà lo stesso effetto sulla coalizione guidata da Macri nelle elezioni di metà mandato del 2017, quando si voterà per rinnovare la metà della camera dei deputati e un terzo del senato.
Per ora gli investimenti stranieri più consistenti arrivano nel settore dell’allevamento bovino e nell’edilizia commerciale
Il capo di stato argentino scarica la colpa sui governi precedenti, ma le sue misure stanno facendo salire l’inflazione e stanno causando una contrazione dell’economia, che l’anno scorso era cresciuta del 2 per cento. Macri, così come gli Stati Uniti, l’Unione europea e i grandi investitori locali e stranieri, spera che le sue politiche economiche servano a gettare le basi per una crescita sostenibile nel futuro.
Il peronismo e la corruzione spaventano gli investitori
In questi giorni Macri sta annunciando gli investimenti di alcune aziende già presenti in Argentina, anche se in parecchi casi si tratta di cifre modeste che serviranno poco più che a mantenere le loro operazioni nel paese. Per adesso i fondi più consistenti stanno arrivando solo nell’industria della carne bovina, decimata dalla ricetta kirchnerista, e nell’edilizia per la costruzione di uffici, case per le classi media e alta e per i centri commerciali. Per il resto vige la cautela.
Alcuni investitori stranieri ammettono in privato di avere paura del peronismo. In Argentina esiste un mito secondo cui solo i peronisti possono governare il paese. Macri finora ha intrapreso diverse riforme senza problemi, pur non avendo la maggioranza in parlamento. Ha fatto leva sulla divisione interna al peronismo tra i fedeli a Cristina Kirchner, che l’hanno abbandonata non appena ha lasciato il potere a dicembre, e quelli che si opponevano a lei fin da prima. Il leader liberale ha stretto patti con diversi peronisti, ma non è chiaro fino a quando ci riuscirà. Se la crisi economica si aggravasse, il peronismo renderà la vita impossibile a Macri? La maggior parte dei sindacati si ispira proprio al movimento creato da Juan Domingo Perón 71 anni fa.
Un investitore sarà disposto a mettere i suoi soldi in un impianto industriale in Argentina sapendo che nel 2019 potrebbe tornare al potere Cristina Kirchner o un altro peronista, che potrebbe preferire un maggior intervento dello stato in economia o una minore presenza del mercato? Se l’alleanza che sostiene il presidente argentino perde le elezioni legislative del 2017, avrà la forza necessaria per governare i due anni successivi? I seggi di Cambiemos in gioco in quelle elezioni saranno pochi, anzi, è probabile che ne ottenga qualcuno di più di adesso, ma sarebbe un duro colpo se un seggio da senatore della provincia di Buenos Aires, dove vive quasi il 40 per cento degli argentini, andasse a Cristina Kirchner, che oggi è in difficoltà per le inchieste di presunta corruzione, o al peronista antikirchnerista Sergio Massa.
Altri investitori stranieri confessano, sempre in privato, di avere dei dubbi sul fatto che l’ascesa di Macri implichi la fine della corruzione negli appalti pubblici e nel mondo imprenditoriale. Per quanto i governi di molti paesi siano entusiasti di Macri, non possono obbligare le aziende a scommettere i loro dollari o i loro euro nella terza economia latinoamericana, mentre la regione attraversa una recessione dovuta alla diminuzione dei prezzi delle materie prime, la principale voce di esportazione per tutti.
(Traduzione di Francesca Rossetti)
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