Va bene l’alleanza con il Movimento 5 stelle (M5s), e poi? E poi boh. La domanda, nel Partito democratico (Pd), non sembra avere risposta. Emerge invece l’idea che Matteo Salvini rappresenti un pericolo dal quale mettere al riparo il paese. Ed emerge, ancora una volta, una certa idea di come stare in relazione con il potere. È su questo binario che, in estrema sintesi, il Pd si è mosso, esaurendosi però ogni mossa all’interno di questo stesso perimetro.

In molti hanno osservato, in queste settimane, che Matteo Renzi con il voto sarebbe stato probabilmente cancellato dalla plancia di comando del partito. Al momento può infatti contare soltanto sul controllo dei gruppi parlamentari, che però sarebbero stati ridisegnati da Nicola Zingaretti attraverso la compilazione delle liste elettorali. Andando al voto, poi, Renzi non avrebbe nemmeno avuto il tempo necessario per dare vita a una scissione, cosa che peraltro c’è chi ancora non esclude del tutto. Il problema di Renzi, insomma, era quello di restare a galla. Affinché così fosse, era necessario evitare il voto. E per questo, era necessario un accordo con il M5s. Sull’altro fronte, una volta aperta la crisi, Nicola Zingaretti aveva invece tutto l’interesse che si andasse al voto rapidamente, anche per prendere il controllo del partito una volta per tutte.

Se questo era il punto di partenza, ecco allora che si spiegano certi silenzi, le incertezze, ma soprattutto alcune incredibili conversioni dell’ultima ora. Tra tutte, la più incredibile è stata senz’altro quella di Matteo Renzi. Lo scorso 10 agosto alle 02.56 in un tweet affermava: “Oggi i giornali sono pieni di retroscena su accordi tra noi e i 5S. Dai, ragazzi, non scherziamo”. Nonostante ciò, e nonostante anni di insulti reciproci, soltanto qualche ora dopo usciva una sua intervista al Corriere della Sera il cui titolo – “Folle votare subito, prima governo istituzionale e taglio dei parlamentari” – conteneva un’evidente proposta di accordo politico diretta proprio ai cinquestelle. Quanto a Zingaretti, si è assistito a un progressivo scivolamento sulle posizioni renziane quasi suo malgrado e frutto, a quanto si capisce, di molte pressioni interne ed esterne al partito, alle quali evidentemente il segretario del Pd ha ritenuto di non dover resistere, o semplicemente non ha potuto resistere. Nonostante tutto, almeno per il momento la partita sembra averla vinta Renzi, e poco male per lui se ha finito per mettere in difficoltà l’intero partito.

L’assenza di un’identità
D’altra parte, è così che spesso funziona nel Pd. Al di là dell’amalgama mal riuscita di cui disse Massimo D’Alema, il problema è stato quello di non essere mai davvero riusciti a costruire un’identità che non fosse in gran parte dipendente dall’esistenza di un avversario politico: Silvio Berlusconi prima, Matteo Salvini oggi. Eppure costruire la propria identità politica in opposizione agli avversari, se aiuta a mascherare la mancanza di idee e sul momento sollecita la militanza, a lungo andare significa proclamare anche la propria insussistenza.

Non a caso, nelle campagne elettorali degli anni passati si è dovuto invocare così spesso il voto utile, non avendo argomenti altrettanto forti per convincere gli elettori più scettici. E si è finiti a governare con Forza Italia e a trattare con il M5s, non capendo mai quale sia la ragione profonda di questo reiterato tentativo di riduzione all’irrilevanza politica, se non una necessità – piuttosto generica e comunque proclamata per lo più soprattutto dallo stesso Pd – di mettere in sicurezza il paese. Anche per questa strada, non manifestando una chiara fisionomia politica, il partito ha finito nel migliore dei casi per dare la sensazione di essere un contorno che va bene con tutto, ma mai il piatto principale.

Per questo, oggi la partita che i democratici hanno deciso di giocare è rischiosissima. C’è sicuramente il rischio di restituire il regalo a Salvini in tempi non lunghissimi. Ma il rischio principale è quello di esaurire, se possibile ancor di più di quanto già non lo sia, la pazienza dei propri elettori. Il rischio è insomma quello di ripetere, ma in una dimensione ancora più tragica, l’esperienza già attraversata con il governo guidato da Mario Monti. Naturalmente, su questo fronte Salvini ha, e avrà anche se finisse all’opposizione, gioco facile ad affondare i colpi. C’è però da dire che all’epoca della segreteria di Pier Luigi Bersani il centrosinistra aveva di fronte una vittoria elettorale annunciata, alla quale rinunciò avviandosi verso un inspiegabile suicidio politico. Oggi invece l’esito delle elezioni è molto più incerto di allora e autorizza scelte di diversa natura. Inoltre, è molto difficile anche prevedere se una traversata nel deserto indebolirebbe il capo della Lega o lo rafforzerebbe, come capitò a Silvio Berlusconi.

Per questo, e nonostante le tante previsioni che vengono fatte circolare in questi giorni, è onestamente molto difficile stabilire adesso se sia più solida la strategia di chi nel partito ha chiesto che si andasse a votare o di chi invece ha spinto per un accordo con il M5s. Tutto sommato, la scelta avrebbe tutte le caratteristiche delle scelte squisitamente politiche, che annunciano posizionamenti strategici e obiettivi anche a lungo termine. E per questo avrebbe meritato di essere accompagnata anche da argomenti politici, che non possono essere solo quelli che hanno a che fare con le necessità della tattica.

L’unico calcolo che in queste settimane è sembrato andare oltre le contingenze immediate è stato quello relativo all’elezione del prossimo presidente della repubblica. Si dirà – visto con gli occhi del centrosinistra – che in una situazione così bizzarra e pericolosa com’è quella nella quale l’Italia si è infilata, sarebbe già qualcosa. Come già qualcosa – ma poi chissà – sarebbe mandare la Lega all’opposizione. Già. E poi? Poi si vedrà. Come sempre, d’altra parte, in questa seconda repubblica senza politica.

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