Considerate le condizioni in cui si trova, si potrebbe pensare che Roma negli ultimi dieci anni non sia stata governata. Tuttavia, immaginare una città abbandonata a se stessa da un potere letargico e mai all’altezza significa purtroppo essere molto ottimisti. Roma, infatti, in questi anni è stata governata. Ed è stata governata piuttosto male, chiunque sedesse in Campidoglio.
Così, oggi nessuno può dirsi innocente. Non può farlo la destra, protagonista con Gianni Alemanno di anni tra i più oscuri per la capitale, inaugurati con lo sfregio dei saluti romani sullo scalone michelangiolesco del palazzo Senatorio. Non può farlo un Partito democratico incapace di tutto se non di regalare in modo farsesco la città a Virginia Raggi. Non possono farlo i cinquestelle che hanno precipitato la capitale in un abisso di nulla.
Neppure i romani possono dirsi innocenti poiché i loro ultimi sindaci se li sono votati. Nella primavera del 2021 dovranno farlo di nuovo. Siamo ancora alle schermaglie iniziali, certo. Tuttavia, stando a ciò che s’è visto finora, il rischio che la città vada incontro a un nuovo disastro non è da sottovalutare.
Silenzi, lotte e autocandidati
Virginia Raggi ancora non si capisce se si candiderà per il secondo mandato né se potrà davvero contare sull’appoggio del proprio stesso partito. Il Pd è una valle di lacrime, un po’ per l’incapacità di esprimere un ragionamento politico che vada oltre l’orizzonte della tattica, un po’ per gli errori commessi in passato, ferite ancora aperte per molti suoi potenziali elettori romani. E non a caso il partito di Nicola Zingaretti è rimasto finora sostanzialmente afono, come peraltro gli capita spesso.
Quanto alla destra, almeno nella capitale potrebbe facilmente raccogliere il frutto dell’inadeguatezza degli avversari ma rischia di scaricare su Roma, Milano e le altre città che andranno a votare nel 2021 le conseguenze della battaglia per la leadership fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Per questo, alla fine potrebbe ridursi a indicare non un politico ma un nome della società civile.
Approfittando di questa incertezza, sta trovando spazio una piccola folla di autocandidati come Carlo Calenda e Vittorio Sgarbi.
Assenza di idee
In questo scenario c’è un elemento ricorrente: manca la politica. Questa lacuna è stata finora riempita con una deriva carismatica, oramai considerata come ovvia normalità un po’ da tutti. Le conseguenze sono la prevalenza del candidato sulle idee e dell’io sul noi, e la riproposizione della litania del fare e del basta chiacchiere. A essa però non segue mai la proclamazione di argomenti che non siano di stretta derivazione imprenditoriale perfino nel linguaggio, triste lascito del berlusconismo.
Di recente, come riportato da Repubblica, anche l’arcivescovo Gianpiero Palmieri si è lamentato di ciò che sta accadendo nella capitale. “Che tristezza! Che amarezza”, ha detto il vicegerente della diocesi di Roma, “vedere che finora oltre ai nomi dei candidati non ci sono state proposte, idee, progetti su come si intende risollevare le sorti della città”. Il fatto è che, per convinzione o per insipienza, molti ritengono di poterne fare a meno. Ed è un errore.
Governare una città infatti non è lo stesso che governare un’azienda nella quale il profitto è faro di ogni cosa. E poi per farlo non basta far funzionare i servizi. Si deve anche esprimere un’idea di società e dunque politica, senza la quale non resta che un’impostazione manageriale che rende il potere sempre più verticale e lontano dalla realtà. La dice lunga, a questo proposito, il ritornello sulla necessità di tornare nelle periferie che si ripete vacuamente dopo ogni sconfitta.
C’è la tendenza a leggere le questioni sociali solo dal punto di vista dell’ordine pubblico
In quell’invito che la classe dirigente rivolge a se stessa, e sempre con una certa condiscendenza, c’è l’ammissione della propria estraneità rispetto a quel mondo e anche dell’incapacità di comprenderlo. Ed è inevitabile che sia così, considerato che la politica si è ridotta a osservare le periferie con lo sguardo che un etnologo riserverebbe all’oggetto dei propri studi più che con quello del politico che quel territorio dovrebbe rappresentare.
In questo modo, per chi ambisce a governare la città diventa difficile anche capire come mai nelle periferie ci si chieda da tempo – inascoltati e spesso senza intenzione populista, ma anzi in termini tradizionalmente politici – in nome di chi le classi dirigenti abbiano esercitato il potere in questi anni, quali interessi abbiano interpretato e quali tutelato. L’abisso che separa tutto ciò dal lavoro che sulle periferie fece sul finire degli anni settanta Luigi Petroselli – ancora oggi tra i sindaci più amati – è davvero incommensurabile.
La retorica della sicurezza
Contemporaneamente, questa inclinazione verticale e manageriale del potere rafforza da tempo la tendenza a leggere le questioni sociali solo dal punto di vista dell’ordine pubblico. Ce lo racconta la cronaca di questi anni nei quali la povertà, la marginalità, la condizione dei migranti sono entrate nel discorso pubblico quasi esclusivamente come questioni relative alla sicurezza, mentre a parlare di inclusione sono rimasti papa Francesco e pochi altri. Soprattutto per il governo delle città, questa deriva è molto pericolosa.
È per questa strada che, ad esempio, non soltanto a Roma si è finiti per elevare a categoria politica l’aspirazione al decoro, che avrebbe anche un senso se però fosse posta a corollario di una idea di governo decisamente più ampia, più politica appunto. Pare invece che proprio nel richiamo al decoro stia ormai la principale idea di governo delle città. E non accade per caso: in un periodo nel quale mancano le idee e il potere si fa forte anche dell’incertezza e delle paure dei cittadini, decoro e sicurezza sono un’esca molto facile da agitare di fronte agli elettori, all’occorrenza solleticandone la pancia.
Purtroppo, è altrettanto facile finire per declinare tutto ciò nella sua forma più misera e formale, quella del “legge e ordine”. Come si intuisce, è il terreno sul quale da sempre pascola la destra. Ma sono anni che il centrosinistra, ridotto a simulacro di se stesso, progressivamente slitta su quello stesso patrimonio di valori.
Vale infine la pena di ricordare che la mancanza di cultura e visione politica complica il rapporto tra il governo cittadino e la macchina burocratica che quella visione dovrebbe trasformare in azione amministrativa. Ed è ciò che è accaduto a Roma in questi ultimi dieci anni. È inevitabile infatti che il potere degli uffici cresca quando per inesperienza o mancanza di idee sindaco e giunta non sono in grado di interloquire con la burocrazia e di guidarla.
Del resto, nel momento in cui l’inesperienza si manifesta perfino in una certa difficoltà a costruire una delibera di giunta, qualcuno quel lavoro dovrà pur farlo. E questo, anche al di là di ogni intenzione, può intralciare la realizzazione di quel poco di idee che la politica ancora propone, e che nel bene e nel male i cittadini hanno scelto con il voto.
A maggior ragione, quando si entrerà nel vivo della campagna elettorale c’è da sperare che finalmente il discorso pubblico si concentri sulle idee e meno sui candidati. Considerato lo spettacolo al quale si sta assistendo, purtroppo non c’è da stare allegri.
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