Con un tweet di qualche giorno fa Tom Kington, corrispondente in Italia del quotidiano britannico The Times, ha fatto notare come la stampa italiana riportasse ogni giorno fughe di notizie sulle restrizioni legate al covid-19 presentandole come fatti, sebbene il governo non avesse ancora preso decisioni definitive. “It’s driving me mad”, mi fa diventare matto, è stata l’eloquente constatazione finale. Quel tweet ha riscosso un certo successo. Non è stato l’unico.
“Come farà la gente a capire se e quando le regole cambieranno davvero se noi annunciamo rivoluzioni ogni giorno?”, si è chiesto anche Stefano Feltri, direttore del quotidiano Domani. E Charlie, la newsletter del Post dedicata all’informazione, ha scritto: “Il nuovo formato giornalistico di maggior successo quest’anno nell’informazione italiana è stata la bozza: intesa nel senso di anticipazione o ipotesi sulle decisioni delle istituzioni nei confronti del coronavirus, anticipazione o ipotesi in quotidiano aggiornamento e correzione fino a raggiungere un picco di concitazione all’immediata vigilia della pubblicazione delle decisioni ufficiali, e ricominciare il ciclo pochi giorni dopo”.
È difficile dar loro torto. Purtroppo, il problema non è soltanto nel rischio di confondere le idee agli italiani su cosa potranno fare a Natale. Il rimbalzo quotidiano delle anticipazioni sul lockdown di fine anno, infatti, è stato così ossessivo da diventare alla fine esso stesso una notizia, attirando l’attenzione di chi si occupa di comunicazione politica e informazione.
Il culmine di un processo lungo
“In Italia”, dice Tom Kington, “la stampa ha un modo di affrontare il racconto della politica che si basa molto sul retroscena e sulle previsioni”. Questo, secondo il giornalista britannico, dipende anche dall’esistenza di un mondo politico piuttosto articolato e che difficilmente rinuncia a fornire una propria opinione off the record, in forma ufficiosa. “È giusto che un giornalista pubblichi ciò di cui ha notizia in anticipo. E spesso le previsioni dei giornali si rivelano corrette”. Tuttavia, fa notare Kington, con l’irruzione del covid-19 “in gioco non ci sono più fughe di notizie che hanno a che fare con guerre di palazzo, ma informazioni di servizio che incidono sulla vita quotidiana di tutti i cittadini”. “Se sui giornali leggo una bozza”, dice, “vorrei che mi fosse detto con chiarezza che si tratta di una bozza e non di una decisione finale”. Trattare una bozza come si racconterebbe una voce di corridoio finisce invece per creare confusione.
Ciò non esclude, ovviamente, che l’anticipazione di un provvedimento così importante come quello sul lockdown natalizio possa di per sé costituire una notizia. Il problema è appunto nei modi con i quali quelle anticipazioni vengono offerte ai lettori. E questo anche perché, aggiunge Kington, “si è avuta la sensazione, anche se non ne abbiamo la prova, che a volte i giornali siano stati utilizzati dai governanti per testare le reazioni nel paese”. I problemi di questi ultimi mesi, insomma, riguardano sia il lato della comunicazione politica sia quello dell’informazione. Detto altrimenti, il problema sembrerebbe essere, come spesso accade, nel rapporto tra informazione e potere, e nelle forme della loro interlocuzione.
In prima battuta, ciò può anche dipendere dalla struttura stessa del potere che ha materialmente gestito l’emergenza. E, anzi, si dovrebbe forse parlare di un certo caos nella gerarchia delle fonti del potere, quello centrale e quello regionale, in modo particolare nel settore della sanità che non a caso proprio in tempo di pandemia ha finito per mostrare la propria inadeguatezza sotto molti aspetti. Al netto della linea politica seguita dai singoli quotidiani e dei molti eccessi che su questo fronte si sono consumati, l’informazione ha fornito ai lettori un resoconto contraddittorio e confuso dell’agire del potere perché contraddittorio e confuso è stato l’agire del potere.
Pochi spazi
Inoltre, in questi mesi c’è stata un’ulteriore sterzata verso una sempre più decisa disintermediazione del rapporto tra politica e cittadinanza, che ha permesso alla comunicazione politica di conquistare molto terreno, togliendone altrettanto all’informazione. La frequenza e i modi delle conferenze stampa del presidente del consiglio sono lì a dimostrarlo, così come anche certi toni venati di paternalismo.
È evidente che si tratta solo dell’ultimo sussulto, in ordine cronologico, di un percorso avviato ormai più di vent’anni fa quando una serie di eventi di portata storica – la fine della prima repubblica e dei partiti popolari, sostituiti da organizzazioni carismatiche difficilmente distinguibili da comitati elettorali – ha finito per trasformare anche l’informazione, il suo linguaggio e le sue forme, introducendo nuovi generi, a partire dal retroscena, che più di tutti ne ha cambiato la natura. E, va detto, non in meglio. Ma poi c’è anche molto altro da considerare.
“Prima della pandemia”, osserva Patricia Thomas, corrispondente di Associated Press Television News e presidente dell’associazione della stampa estera, “tutti sembravano molto più interessati a quello che aveva da dire l’opposizione. Adesso non sempre si riesce a dargli la stessa attenzione, proprio a causa di questa situazione di emergenza che occupa molto spazio”. Allo stesso tempo, “dobbiamo constatare un’inedita concentrazione di potere nelle mani del presidente del consiglio Giuseppe Conte”.
In questi mesi la comunicazione politica ha conquistato molto terreno, togliendolo all’informazione
Nella prima fase dell’emergenza, tutto sommato in Italia hanno prevalso l’aspirazione all’unità e un sentimento diffuso di solidarietà. La stessa stampa estera, racconta Thomas, se ne è sentita parte tanto da aver organizzato ai musei Capitolini di Roma “Lockdown Italia visto dalla stampa estera”, una mostra fotografica costruita anche come un omaggio all’Italia.
Finita l’estate, nel paese le cose sono cambiate. Certo, “Conte non ha lo stesso potere personale che, per esempio, aveva Silvio Berlusconi”, dice Thomas, “né, nonostante tutto, ha lo stesso genere di controllo sulla propria comunicazione”. Tuttavia, se anche l’emergenza sanitaria può ancora giustificare molte cose, “a lungo termine ciò che sta accadendo non sempre è sano per la democrazia. E non a caso adesso l’informazione sta cominciando a sottoporre il lavoro del governo a una critica più solida”.
I contropoteri devono funzionare
“Nessuno era preparato a questa emergenza”, aggiunge il corrispondente in Italia del quotidiano francese Libération, Eric Jozsef. “Alcuni hanno parlato di guerra. Comunque, è una situazione che ha qualcosa di eccezionale. Si può capire, allora, che per un periodo limitato di tempo si sia avuta una certa concentrazione di potere, e quasi una piccola sospensione delle regole normali. E si può capire anche che nell’emergenza sia mancata trasparenza assoluta nei processi decisionali. Ma di tutto questo a un certo punto il potere deve rendere conto”. E il discorso, naturalmente, riguarda anche il rapporto con l’informazione.
Il potere esecutivo, fa notare Jozsef, “assumendo tutta la responsabilità politica ha quasi fatto venir meno gli altri poteri, quanto meno il legislativo. Inoltre, nella gestione della fase emergenziale si è appoggiato a una struttura burocratica costituita da esperti alla quale i giornalisti hanno avuto poco accesso. Questo ha fatto sì che la stampa abbia avuto a disposizione solo una parte delle informazioni”.
Se inizialmente c’è stata una forma di accettazione di questo stato di cose in nome dell’emergenza, adesso “è il momento di aprire una riflessione poiché”, dice Jozsef, “il gioco democratico si fonda sull’equilibrio tra i poteri dello stato ma anche sulle condizioni perché i contropoteri come l’informazione possano pienamente funzionare”.
Ed è, quella sull’informazione e sul suo rapporto con il potere, una riflessione che andrebbe aperta nel palazzo, certo, ma soprattutto nelle redazioni. È già accaduto in passato, quando il paese e i giornali si sono dovuti misurare con altre emergenze, sebbene di diversa natura da quella che stiamo attraversando adesso. Tuttavia, almeno per il momento, non si muove granché. E allora questi mesi rischiano d’esser ricordati soprattutto come quelli dell’affermazione di un nuovo genere giornalistico: quello, appunto, della bozza.
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