La raccolta di firme per i referendum su eutanasia e cannabis sta registrando uno straordinario successo. Così i due quesiti sono finiti al centro del dibattito pubblico. Ed è ciò che ci si aspetterebbe, considerata la loro natura divisiva. Eppure, più che del merito, si sta discutendo soprattutto dei nuovi strumenti con cui da luglio è possibile raccogliere le sottoscrizioni.

Il fatto è che il gran numero di firme che i promotori hanno già incassato – quello sulla cannabis aveva già raggiunto le 500mila necessarie nei primi sette giorni mentre quello sull’eutanasia ha superato il milione – è dovuto anche alla possibilità di aderire online e non più, come in passato, solo andando fisicamente nei luoghi di raccolta.

È stato possibile grazie a una norma pensata inizialmente per le persone con disabilità e poi allargata all’intero corpo elettorale con un emendamento presentato dal deputato e presidente di +Europa Riccardo Magi alla legge di conversione del decreto Semplificazioni e che consente di sottoscrivere i referendum con una firma elettronica qualificata, per esempio con il Sistema pubblico di identità digitale (Spid).

Equilibrio
Costituzionalisti e mondo politico si sono subito interrogati sulla possibilità che sia alterato l’equilibrio tra democrazia rappresentativa e partecipativa, così com’è oggi costruito dalla costituzione.

Sulla Stampa l’ex presidente della corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky ha ricordato che la raccolta delle firme è sempre stata un “un momento di discussione e partecipazione” e che faceva parte “del dibattito preliminare al voto sul merito della proposta referendaria”. Il rischio, insomma, come anche altri hanno osservato, è di andare verso una democrazia meno consapevole. Inoltre, come ha scritto Andrea Fabozzi sul Manifesto, con la firma online “anche la proposta più demagogica e persino illegittima potrebbe incrociare la corrente ascensionale della rete”. Infine, secondo molti un eventuale eccesso di democrazia diretta, al di là della qualità delle proposte, sarebbe di per sé in grado di minare la legittimazione del parlamento.

D’altra parte, l’ampliamento della partecipazione che il progresso tecnologico consente “è sempre auspicabile se vogliamo essere buoni democratici”, ha osservato l’ex giudice della corte costituzionale Sabino Cassese in un’intervista al Mattino, tanto più che sulla corretta applicazione delle nuove norme, fa notare ancora Cassese, “si pronuncerà la corte di cassazione prima del controllo della corte costituzionale. Quindi vi è la sicurezza che vengano rispettate le norme”. E lo stesso si può dire in generale per l’intero meccanismo referendario.

Tutto ciò ha aperto una discussione sull’eventualità di modificare le norme che attualmente regolano l’istituto referendario, considerato anche che quelle regole vennero stabilite in una Italia molto diversa da quella attuale. Il deputato del Partito democratico Stefano Ceccanti ha proposto di alzare il numero di firme necessario per proporre un quesito da 500mila a 800mila, e abbassare il quorum di votanti necessario affinché il referendum sia valido. Inoltre, si sta pensando di inserire un controllo di costituzionalità della corte costituzionale dopo le prime centomila firme. E c’è chi, come il magistrato Nello Rossi, propone anche una soglia massima nella raccolta di firme per “scongiurare il rischio che la democrazia rappresentativa evolva, grazie a un uso eccessivo e improprio degli istituti di democrazia diretta, in una indesiderabile democrazia plebiscitaria”.

Alla fine per molti il tema è anche quello del populismo. Tuttavia, il collegamento tra populismo, delegittimazione delle camere e referendum non esaurisce la realtà. Semmai, sarebbe utile riflettere anche sulle ragioni che hanno eroso il terreno sotto i piedi di parlamento e forze politiche. E non da oggi.

Sono almeno tre decenni, infatti, che ciò accade: da quando, con il passaggio alla cosiddetta seconda repubblica, i vecchi partiti popolari sono stati sostituiti da organizzazioni carismatiche sempre più simili a comitati elettorali. In questo contesto, alle idee si è sostituita la figura del leader tanto che è diventata prassi normale attribuire ai partiti il nome del proprio capo. Una volta ristrutturata la lotta politica su queste basi, è diventata imprescindibile l’esistenza di un nemico, più che di un avversario. E contro quel nemico – più che sulle proprie idee – i partiti hanno finito per costruire il resto della propria identità politica. Spazio per nuove idee a questo punto ne è rimasto poco e, avendo perso capacità politica, i partiti sono diventati del tutto incapaci di intercettare le istanze provenienti dalla società. Di tutto questo, la storia delle leggi sui diritti è piuttosto indicativa. Ma non è ancora tutto.

Negli stessi anni, le istituzioni sono state percorse da un fenomeno che, di fatto, ha trasformato la vecchia repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale di fatto, con una perdita di centralità delle camere e uno squilibrio tra i tradizionali poteri dello stato. Il potere esecutivo e quello giudiziario, infatti, hanno occupato sempre più il terreno tradizionalmente riservato al potere legislativo. Anche in questo caso, la storia dei diritti e in particolare la cosiddetta via giudiziaria ai diritti, costituisce un racconto esemplare. D’altra parte, se il parlamento avesse approvato una legge sull’eutanasia, come anche la corte costituzionale aveva chiesto, oggi quel referendum non avrebbe ragion d’essere.

È in questo che si dovrebbe cercare l’origine della delegittimazione di politica e parlamento, prima di preoccuparsi di un’innovazione come l’utilizzo della firma digitale per proporre un referendum. Certo, quest’innovazione introduce alcune criticità nel sistema che costituzionalisti e forze politiche hanno sottolineato e alle quali si dovrà porre rimedio. Ma pare almeno altrettanto urgente ricominciare a riempire nuovamente la politica di idee, cosa della quale però sembra che siano in pochi a preoccuparsi.

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