Alla fine ha vinto il Partito democratico. Tuttavia, considerate le dimensioni e la qualità dell’astensionismo, questa vittoria sembra dovuta per lo più all’inconsistenza degli avversari. La destra, peraltro, appare ancora forte nel paese, al di là delle grandi città dove si è appena votato. Con queste premesse, più che su chi ha vinto, sembra interessante provare a ragionare su chi ha perso. E ad aver perso è stata soprattutto Giorgia Meloni che in questa occasione avrebbe voluto prendere definitivamente la guida della destra, sottraendola a un Salvini già da tempo in difficoltà. Le cose sono andate diversamente.
Quella appena rimediata non è la prima sconfitta di Giorgia Meloni. A Roma, nella corsa al Campidoglio del 2016, ne incassò una anche in prima persona. Ma è la prima volta che una sua sconfitta è così politicamente significativa, ben oltre ciò che raccontano i numeri. E questo anche a causa di alcuni errori da lei stessa commessi. Tra questi, due sono forse i più significativi per quello che raccontano di lei.
Il primo riguarda la scelta del candidato a sindaco di Roma, Enrico Michetti. Personaggio sconosciuto ai più, è apparso quanto meno poco adatto al ruolo, e non solo per certe sue sconcertanti affermazioni sulla shoah o sulla presenza di soccorritori stranieri a Rigopiano. Ma soprattutto è apparso privo di argomenti politici da spendere, salvo quello di essere il candidato voluto da Meloni. La gravità di questa scelta appare forse mitigata agli occhi di chi non conosce la storia politica romana degli ultimi quarant’anni. Tuttavia, basterà ricordare la forza che la destra è sempre riuscita a esprimere nella capitale e il solidissimo radicamento sul territorio. Meloni ha in parte sporcato il lavoro fatto in questi decenni da molti prima di lei, mostrando una evidente incapacità di leadership.
Ragioni incomprensibili
Il secondo errore è la risposta all’assalto neofascista alla sede nazionale della Cgil. Meloni lo ha condannato come squadrismo senza però pronunciare la parola fascismo, zavorra che anche lei ha evidentemente deciso di caricarsi sulle spalle per ragioni davvero incomprensibili nel 2021. Di quell’assalto, infatti, ha detto di non avere chiara la matrice, nonostante le immagini la raccontassero in modo tanto esplicito che il non vederla può essere frutto solo di una scelta o di una grave miopia che lei non aveva ancora mostrato. In pochi forse lo ricorderanno ma nel 2002 un gruppetto di giovani di destra si recò al teatro Vascello, a Roma, per contestare uno spettacolo sul 25 aprile. Pur senza rinnegare la sua identità, la condanna di Meloni, all’epoca aveva 25 anni ed era leader di Azione giovani, fu decisamente più netta e cristallina di quella opaca e insufficiente di Meloni oggi leader di Fratelli d’Italia. Ma forse nel 2002 la spinta della svolta di Fiuggi si avvertiva ancora forte. Comunque sia, in questa vicenda Giorgia Meloni più che un passo indietro rispetto alla sua stessa storia personale, ha mostrato con preoccupante chiarezza tutti i suoi limiti politici, compromettendo l’immagine di sé che che aveva costruito finora.
Le conseguenze della battaglia interna rischiano di essere ben più gravi dell’insuccesso rimediato a Roma e Milano
Se ciò è potuto accadere, se insomma la conduzione di queste settimane di campagna elettorale ha forzato l’emersione dei suoi limiti di leadership e di capacità politica, ciò è dovuto soprattutto a due circostanze. La prima è la solitudine della stessa Meloni nel suo partito, essendosi circondata di una classe dirigente più che inconsistente, a tratti addirittura pittoresca e fonte di imbarazzi, comunque politicamente incapace di reggere qualsiasi paragone perfino con quella che la destra popolare espresse anche in anni non troppo lontani.
La seconda è il logoramento per la corsa che da tempo Meloni ha ingaggiato con Matteo Salvini per la guida della destra. Le conseguenze di questa battaglia interna rischiano di essere adesso ben più gravi dell’insuccesso rimediato a Roma e Milano.
Se infatti questo voto amministrativo doveva concorrere a definire la leadership della destra, il risultato ottenuto è il peggiore possibile per la destra che si trova adesso senza una guida capace di trascinare l’elettorato. E, forse, perfino senza più candidati credibili per quel ruolo, essendo le figure politiche di Salvini e Meloni piuttosto ammaccate.
Un punto in favore dei moderati
Se Salvini fin dall’estate del Papeete è apparso decisamente in difficoltà, Giorgia Meloni si è messa infatti nella stessa condizione a causa di grossolani errori di strategia politica molto simili a quelli commessi in passato dal leader della Lega. E si ricorderà che proprio dopo l’estate del Papeete, Salvini aveva dovuto prendere atto della emersione di una opposizione interna nel suo stesso partito, divenuta poi un fatto politico con l’arrivo di Mario Draghi al governo e l’affermazione di Giancarlo Giorgetti. Ma non è ancora tutto.
Mentre i candidati voluti da Meloni e Salvini a Roma e Milano perdevano rovinosamente contro i candidati espressi dal Pd, e mentre altrove perdevano perfino i candidati vicini a Giorgetti, gli unici a destra capaci di vincere in elezioni di una certa rilevanza sono stati due politici vicini a Silvio Berlusconi: Roberto Occhiuto, nuovo presidente della Calabria, e Roberto Dipiazza, riconfermato sindaco di Trieste. E questo dal punto di vista simbolico ha ulteriormente appesantito la disfatta di Salvini e Meloni mentre dal punto di vista politico ha segnato un punto in favore dei moderati e una sconfitta per chi da tempo cavalca il sovranismo.
Cosa accadrà nei prossimi mesi è difficile prevederlo, tale e tanta è la mole di voti inespressi a cui si deve aggiungere la forza che, come detto, la destra è ancora capace dei esprimere nel paese e che più facilmente sarà mobilitata in occasione delle prossime elezioni politiche. Dire che il centrosinistra non abbia vinto è evidentemente sbagliato, tuttavia la vittoria appare meno chiara di quanto le dichiarazioni della leadership democratica vorrebbero, nonostante i cinquestelle quasi spariti dalla scena e la destra che sembra avere una base elettorale ancora solida, ma non una classe dirigente in grado di intercettarla.
Se questa è la situazione, il quadro politico che ne risulta appare bloccato. Il semestre bianco terminerà solo con l’elezione del nuovo capo dello stato a febbraio e questa partita è sempre più l’orizzonte entro il quale andrà letta ogni mossa di ciascuno dei giocatori in campo. Ecco allora che le decisioni sul reddito di cittadinanza e quota 100, insieme al dibattito riemergente sulla legge elettorale e alla decisione sulla data del prossimo voto politico, daranno molto presto le chiavi per capire chi, tra i partiti, avrà avuto la forza di sedersi a capotavola. E forse diranno anche qualcosa sul futuro di Mario Draghi.
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