Davanti al prolungarsi della crisi che avvolge l’Ilva di Taranto, sembra ormai inevitabile il ricorso a una qualche forma di intervento pubblico. Lo ha ribadito lo stesso presidente del consiglio Matteo Renzi, quando in una recente intervista a la Repubblica si è lasciato sfuggire: “Ci sono tre ipotesi. L’acquisizione da parte di gruppi esteri, da parte di italiani e poi l’intervento pubblico. Non tutto ciò che è pubblico va escluso. Io sono perché l’acciaio sia gestito da privati. Ma se devo far saltare Taranto, preferisco intervenire direttamente per qualche anno e poi rimetterlo sul mercato”.
Le prime due ipotesi sembrano essere al momento del tutto illusorie. Il disastro ambientale tarantino (l’incapacità, o la non volontà, di coniugare diritto al lavoro e diritto alla salute) non è solo il prodotto di quasi vent’anni di gestione privata dei Riva. È la fotografia impietosa dell’intero settore siderurgico e, in generale, dell’intero sistema industriale italiano. La verità è in che tutto questo tempo non c’è stata alcuna alternativa al modello Riva.
Non c’erano offerte migliori di quella avanzata dal gruppo Riva, quando si decise nei primi anni novanta, dopo il fallimento delle partecipazioni statali, di privatizzare la più grande siderurgia d’Europa. Non ci sono state in questi anni, e la prova è anche nella crisi di tutti gli altri stabilimenti siderurgici del paese. Non ci sono ora: dal gruppo Marcegaglia al gruppo Arvedi, chiunque voglia rilevare l’Ilva ha avanzato solo intenzioni fumose, senza presentare alcun piano che concretamente dia un futuro alla fabbrica, e risolva la devastante situazione ambientale.
Offerte valide non sono arrivate neanche da gruppi esteri. Per mesi a Taranto si è vociferato che l’Ilva potesse rilevarla Arcelor Mittal, il colosso franco-indiano-lussemburghese, principale produttore mondiale di acciaio. Ma gli ostacoli all’intervento di un papa straniero per l’acciaio sono due.
Il primo: Arcelor Mittal chiede di fatto una sorta di potere d’intervento extragiudiziale, e cioè di agire come se fossero sospesi i processi giudiziari in atto, in primis quello per disastro ambientale. Il ragionamento è più o meno il seguente: non possiamo entrare in una partita tanto complicata, accollarci errori che non abbiamo commesso noi, e poi essere risucchiati nelle beghe politico-giudiziarie italiane. Il punto cruciale, tuttavia, è che anche il colosso indiano non ha comunque presentato nessun piano che tenga realmente insieme tenuta dei livelli occupazionali e realizzazione delle bonifiche.
E così arriviamo al secondo ostacolo: il pericolo che Arcelor Mittal intervenga unicamente per rilevare quote di mercato e smantellare tutto in pochi anni. Del resto anche in Francia il gruppo ha chiuso l’importante stabilimento di Florange senza dare alcuna risposta alle proteste dei lavoratori. E ciò è avvenuto proprio in una di quelle regioni del paese in cui deindustrializzazione, disoccupazione e ascesa impetuosa del Front national sono andate di pari passo.
L’affermazione di Renzi, peraltro condivisa dai sindacati, coglie in pieno questo vuoto. Per questo è probabile che non si tratti di un semplice annuncio propagandistico, ma che realmente si arrivi in tempi brevi a intervento diretto dello stato.
Ma in che forme? E soprattutto con quali soldi? Già ora, per applicare l’autorizzazione integrata ambientale che dovrebbe arginare l’inquinamento, favorendo la copertura dei parchi minerari e la trasformazione della fabbrica, servono almeno 1,8 miliardi di euro. Questi soldi non ci sono. Le casse dell’Ilva sono vuote, e in assenza di altro si fa affidamento sugli 1,2 miliardi sequestrati dal tribunale di Milano ai Riva per evasione fiscale, in un processo che non c’entra nulla con quello tarantino sull’ambiente. Ma quei soldi non sono ancora nelle casse dello stato, né del commissario che dovrebbe utilizzarli. Non solo perché sulla misura del tribunale pende un ricorso in cassazione, ma soprattutto perché i soldi sono materialmente dispersi in trust nel canale della Manica di proprietà della Ubs, la quale ha fatto da tempo sapere che consegnerà l’ingente somma solo quando si sarà concluso l’intero procedimento, ancora agli inizi, per evasione fiscale. Detto in altri termini: allo stato attuale ci vogliono anni.
La grande maggioranza degli attuali 13mila dipendenti dell’Ilva (molti dei quali in cassa integrazione) ha trent’anni. Erano poco più che bambini quando l’Italsider diventò Ilva, quando il colosso pubblico fu privatizzato. In questi anni hanno sperimentato sulla loro pelle il disastro creato dalla gestione privata. Poco sanno, però, del fallimento dell’Iri che portò a quel passaggio. Un fallimento che è l’altra faccia della medaglia del fallimento della prima repubblica.
Un nuovo intervento pubblico oggi può aver successo solo se si evitano gli errori commessi nel passato. Non si tratta solo di valutare attentamente chi dovrà mettere i soldi necessari (il fondo strategico? la Cassa depositi e prestiti?) e quanti anni ci vorranno prima di rivendere il pacchetto ripulito al miglior offerente, come lascia intendere l’affermazione di Renzi.
Si tratta di ripensare, a partire proprio da Taranto, la politica dell’acciaio per l’intero paese e di ricreare un alto livello di competenze pubbliche per la gestione di un caso delicatissimo. Soprattutto, occorre non nascondere sotto il tappeto i cumuli di polvere prodotti da quel disastro ambientale che secondo la procura del capoluogo jonico è ancora in atto.
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