Dietro la divergenza di vedute tra la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso e il leader della Fiom Maurizio Landini, che ha da poco lanciato l’idea di una coalizione sociale per organizzare l’opposizione al governo di Matteo Renzi, c’è una domanda spesso trascurata: qual è la natura del sindacato oggi in Italia? Cosa dovrebbe fare chi vuole organizzare i lavoratori?

Non è una domanda da poco e affonda le sue radici nella stessa storia della Cgil, negli scritti e nelle riflessioni di molti dei dirigenti del passato: da Giuseppe Di Vittorio a Luciano Lama, da Bruno Trentin a Vittorio Foa.

Oggi il sindacato è anche un soggetto politico. Negarlo è privo di senso: nel momento in cui svolge considerazioni generali sullo stato del paese, nel momento in cui critica o approva le misure dei governi, nel momento in cui lancia un suo piano del lavoro (proprio come fece Di Vittorio dopo la liberazione), il sindacato sta facendo politica.

La questione di fondo semmai è un’altra, e ha a che fare con la crisi della rappresentanza sindacale. Il sindacato oggi non riesce a rappresentare le fasce del precariato, il lavoro migrante dequalificato, i giovani che mettono insieme tre-quattro occupazioni ultraflessibili. Anche quando intuisce le trasformazioni in atto, ha difficoltà a entrare nei “nuovi” luoghi di lavoro. E, soprattutto, rischia di non riuscire a parlare ai disoccupati, a chi un lavoro non lo cerca neanche più.

Un movimento di opinione?

La crisi è stata riconosciuta sia da Camusso sia da Landini. E la domanda sul ruolo del sindacato nella società ne richiama un’altra molto più complicata, che può essere formulata più o meno in questi termini: per recuperare terreno, il sindacato deve trasformarsi in un movimento di opinione che ponga al centro il lavoro, oppure al contrario deve provare a rappresentare fisicamente quel lavoro nei luoghi del nuovo impiego, e sovente del nuovo sfruttamento, capannone per capannone, call center per call center, nelle campagne da nord a sud del paese?

Portare i temi del mondo del lavoro nei mezzi di informazione, creare alleanze con strati di società civile che in genere si occupano di altro, individuare uno spazio di dialogo politico su questioni di fondo, sono tutti passaggi importanti. Anzi, essenziali in una società come quella in cui viviamo, che tende a marginalizzare costantemente il lavoro. Tuttavia, una strategia di questo tipo non può certo mascherare la difficoltà nella rappresentanza.

Lo conferma la lettura incrociata di alcuni dati.

Secondo un sondaggio realizzato da Nando Pagnoncelli, la coalizione sociale di Maurizio Landini piace al 10 per cento degli elettori. Anche se riscuotere simpatia non vuol dire ovviamente essere votati. Alle elezioni quella percentuale potrebbe scendere nettamente, ammesso che Landini un giorno si candidi davvero – smentendo ciò che in realtà dice ogni giorno, e cioè che lui rimarrà a fare il sindacalista.

Il punto su cui riflettere è però un altro: stando alle analisi, quel 10 per cento è formato soprattutto da laureati, impiegati, professionisti che abitano nelle regioni settentrionali. Non prevalentemente da operai. Men che meno da disoccupati o da chi vive nelle regioni meridionali.

E qui si apre una frattura netta tra movimento di opinione (che pure è essenziale mettere in piedi) e la rappresentanza sindacale classica nei luoghi di lavoro. Che vuol dire innanzitutto: avere iscritti, esprimere delegati, fare contratti vantaggiosi per i lavoratori. Riescono in questo oggi la Fiom e la Cigl?

Come scrive Rinaldo Gianola sul Corriere della Sera, dopo il lungo braccio di ferro con Marchionne, nel gruppo Fiat-Chrysler gli iscritti alla Fiom sono scesi da dodicimila a meno di quattromila.

La crisi maggiore è proprio nelle fabbriche meridionali, Pomigliano e Melfi, che sono ancora dei fulcri della classe operaia italiana. Insieme hanno più o meno dodicimila dipendenti.

Il dinamismo dei sindacati di base

Dieci anni fa, nella fabbrica laboratorio di Melfi, la segreteria di Gianni Rinaldini, insieme a un gruppo di delegati molto attivi, si trovò a guidare un durissimo blocco della produzione. Gli operai chiedevano l’equiparazione salariale con gli altri stabilimenti del gruppo, e una revisione netta dei turni di lavoro, ritenuti particolarmente usuranti.

Il blocco durò diverse settimane, e la Fiom fu l’unico sindacato di categoria appartenente a un’organizzazione confederale a schierarsi al fianco della protesta operaia. Oggi, su settemila dipendenti, ha solo 250 iscritti.

Non tira una buona aria neanche nell’altro grande polo del lavoro metalmeccanico: l’Ilva di Taranto. Alle ultime elezioni per le rappresentanze sindacali unitarie (novembre 2013), la Fiom è arrivata addirittura quarta. Non solo dopo la Uilm e la Fim, ma anche dopo l’Usb.

L’organizzazione di Landini rischia di essere stritolata da una nuova forbice sindacale. Da una parte ci sono i sindacati che firmano gli accordi (anche quelli che la Fiom ritiene eccessivamente al ribasso) e spesso appaiono molto vicini alla dirigenze aziendali. Dall’altra c’è la protesta frontale dei sindacati di base, che hanno un peso consistente sia alla Fiat che all’Ilva, e allo stesso tempo appaiono molto dinamici davanti alle nuove frontiere del lavoro.

Basta guardare, per esempio, all’accordo firmato da Adl e Si Cobas nella logistica, dopo una fase molto dura di scioperi che hanno coinvolto numerosi facchini di origine straniera.

Di fronte a questa forbice che si allarga, la riflessione sulla natura del sindacato sembra riproporsi sotto una nuova luce. La disputa tra movimento di opinione e rappresentanza reale assumere connotati diversi. Landini lo sa bene: il problema principale della Fiom è di avere i piedi d’argilla nelle zone più calde del paese.

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