Dopo la fiducia ottenuta alla camera dal premier Matteo Renzi, la minoranza interna del Partito democratico appare ulteriormente sfilacciata. Davanti alla scelta di approvare il testo dell’Italicum, senza ulteriori modifiche, cinquanta tra i dissidenti interni al partito hanno optato per il sì. Solo in 38 non hanno votato, tracciando un solco tra sé e l’azione decisa del premier.
Tra loro ci sono nomi di peso: Enrico Letta, Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Guglielmo Epifani. E cioè: il presidente del consiglio defenestrato da Renzi, un ex segretario e un’ex presidente del Pd, un ex segretario generale della Cgil.
Eppure, come ha detto lo stesso Renzi con una battuta velenosa subito dopo il voto, non hanno trainato nessuno: se si confronta il voto di ieri con quello per il Jobs act (quando la fronda dissidente si fermò a 33 voti) si può dire che “sull’Italicum Letta, Bindi, Epifani e Bersani hanno portato solo loro stessi”.
Sulla prova di forza dell’Italicum si sono quindi confrontate due debolezze. Lo strapotere renziano, che incede a colpi di fiducia e decreti, ha dimostrato ancora una volta di essere efficace tatticamente, sulla breve distanza. Qualche dubbio, però, inizia a emergere sul lungo periodo. Rompendo con la minoranza interna da una parte, e con Berlusconi dall’altra (dopo che è venuto meno il patto del Nazareno), il premier rischia di infilarsi per un sentiero molto stretto. Al senato, dove si voterà a breve per la riforma costituzionale, i numeri della maggioranza sono molto più risicati. I rischi di imboscata sono maggiori.
Si può ipotizzare che il premier abbia ormai una sola strada per difendere la sua leadership, e dare al renzismo lungo corso: approvare al più presto l’Italicum e andare alle elezioni anticipate per vincerle. Ma, anche in questo caso, Renzi dimostra di credere troppo all’autosufficienza del proprio gruppo, e del consenso verso la propria persona.
Vincere per strappi, pensare che le alleanze siano solo temporanee e strumentali, non aiuta certo a gettare le basi per un’azione di governo lungimirante e inclusiva, quanto meno sulle riforme sostanziali. Se Renzi finora ha avuto la meglio è perché le minoranze del suo partito si sono dimostrate un arcipelago di isolotti riottosi, incapaci di amalgamarsi.
Ci sono varie ragioni che impediscono la scissione del partito: la vicinanza delle elezioni regionali; il rischio di irrilevanza una volta usciti dalla “casa madre”; la difficoltà di pensare e costruire, oggi in Italia, un soggetto alla sinistra del Partito democratico. C’è sicuramente lo spazio sociale, come individuato anche da Maurizio Landini. Più difficile è intravedere la costruzione di un soggetto politico che non ripeta gli errori del passato.
A questo va aggiunto un altro elemento, storico e culturale allo stesso tempo: esponenti come Letta e Bersani (che provengono dalla vecchia sinistra democristiana e dal vecchio Partito comunista) appartengono a culture politiche che hanno sempre rifiutato l’ipotesi della scissione giudicandolo il male peggiore. Credono tuttora di poter incidere di più se rimangono all’interno del partito, per quanto all’interno di un’area molto frammentata.
Tuttavia questo non evita un paradosso che gli si potrebbe ritorcere contro. Negli ultimi giorni a Renzi è stata rivolta più volte l’accusa di autoritarismo. È perfino apparsa l’evocazione del fascismo e dell’approvazione della legge Acerbo.
Se queste accuse hanno un fondamento, rivolgerle a Renzi pone la minoranza interna del Pd davanti a un dilemma: non può accusare il suo segretario di stravolgere la costituzione e poi restare all’interno dello stesso partito. E se non riesce a sconfiggerlo politicamente, ha solo due opzioni: uscire o abbassare i toni.
Certo, non è un dilemma entusiasmante: l’opposizione interna nel Partito socialista di Bettino Craxi fu paralizzata, a suo tempo, da una simile scelta. Ma alla lunga, ripetendo lo stesso copione, la più dura delle accuse si riduce a inefficace borbottio di fondo. E le parole perdono il loro senso.
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