Lo sfruttamento nei campi è la regola e non l’eccezione
Fino a sette o otto anni fa, girando per molti paesi agricoli della Puglia, era facile sentirsi dire che il caporalato non esiste. O che, se proprio esiste, riguarda poche “mele marce”. Questa tesi negazionista, che ne ricorda altre altrettanto tragiche a proposito della mafia, è stata smentita dai fatti.
Non solo il caporalato esiste, ma controlla ogni anno decine di migliaia di braccia in tutta Italia, come evidenziato dai rapporti Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto.
Ciò accade non solo nelle regioni meridionali, ma anche nella pianura Padana o nelle Langhe piemontesi. Come la “linea della palma” di cui parlò Leonardo Sciascia, anche la linea del caporalato è salita verso nord anno dopo anno.
Tuttavia l’epicentro del maggior intreccio di sfruttamento, degrado e violenza continua a essere la Puglia, e in particolare la campagna del Tavoliere. Basta girare per le strade interne, per capire che di quell’intreccio non si avvantaggiano solo poche mele marce, cioè pochi imprenditori agricoli che decidono di aggirare le regole della raccolta del pomodoro, dell’uva o delle angurie.
Sono i caporali a fornire squadre di lavoro ‘disciplinate’ ai proprietari terrieri
In Puglia, come in altre regioni del sud Italia, nell’ultimo decennio si sono formati dei veri e propri “ghetti” fatti di baracche, in cui vivono migliaia di braccianti stranieri. Spesso sono sorti a ridosso delle vecchie borgate agricole disabitate, altre volte sono sorti spontaneamente.
Il più noto è il Gran ghetto di Rignano Garganico, dove vivono un migliaio di braccianti africani, ma ce ne sono almeno altri sei o sette in tutta la provincia di Foggia.
Lavorano tutti sotto caporale. Sono i nuovi “suprastanti”, sui loro cellulari che d’estate diventano bollenti, a mediare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro nell’agricoltura del ventunesimo secolo. Sono loro a fornire ai proprietari terrieri squadre di lavoro “disciplinate” i cui membri accettano di lavorare per meno di venti euro al giorno.
Il mondo del pomodoro
Nel mondo del pomodoro la paga è a cottimo. Riempiendo un cassone di tre quintali di prodotto si ottengono 3,50 euro, quando va bene (al produttore il pomodoro viene pagato 8 euro al quintale). Di questi, 50 centesimi vanno dati al caporale, che prenderà altri soldi per il trasporto nei campi, per la fornitura di acqua e cibo e – in alcuni casi – anche per l’assegnazione di un alloggio in condizioni degradate.
Ogni estate la presenza di una manodopera quotidianamente impiegata di quattro o cinquemila braccianti (cui vanno aggiunti quelli che vivono nei casolari più piccoli e isolati) è la prima smentita della tesi secondo cui ai caporali ricorrono solo poche “mele marce”.
Purtroppo tale pratica è molto più estesa. Si è fatta base e sistema del mondo agricolo, come sostiene da tempo la Flai Cgil Puglia.
Nella sola provincia di Foggia ci sono 45mila lavoratori agricoli iscritti negli elenchi anagrafici: il 60 per cento è costituito da lavoratori immigrati (in gran parte bulgari e romeni). Tra gli stranieri iscritti, il 60 per cento dichiara molto meno di 51 giornate lavorative annue, in genere solo cinque o sei.
Il rischio che tutto ciò mascheri forme di lavoro “grigio” è evidente. A questa forza lavoro si aggiungono almeno diecimila braccianti che lavorano in nero e che sono tuttora controllati dai caporali: la metà vive nei ghetti.
Tutti questi lavoratori non costituiscono affatto un “esercito di riserva”. Come dice Giuseppe De Leonardis, segretario generale della Flai Puglia, “sono pienamente integrati nel sistema agricolo. A parte un sottile strato in regola, la maggior parte della manodopera è rappresentata da loro”.
In Puglia nelle ultime settimane sono morti per la fatica e il gran caldo due braccianti stranieri e due braccianti italiani. Il tunisino Zakaria Ben Hassine (morto a Polignano), Mohamed Abdullah (rifugiato sudanese che lavorava a Nardò presso un’azienda agricola già sotto processo per caporalato), Paola Clemente di San Giorgio Ionico (morta nei pressi di Andria mentre lavorava all’acinellatura dell’uva) e Maria Lemma di Massafra (morta a Ginosa).
Tutti avevano tra i quaranta e i cinquant’anni. A loro si aggiunge un quinto caso, emerso ieri.
Un bracciante maliano del ghetto di Rignano si sarebbe accasciato all’interno dell’ennesimo cassone di pomodoro che stava riempiendo sotto il sole cocente. Secondo le voci che sono corse nel ghetto, alimentate da quelli che avevano lavorato con lui per tutto il giorno, sarebbe morto direttamente in campagna. Ma non c’è traccia del corpo negli obitori della provincia, né i posti di pronto soccorso hanno registrato un caso riconducibile a questa storia. Per questo, pensando al peggio, non è improbabile che il corpo sia stato fatto sparire.
Le inchieste sulle violenze nei campi spesso si risolvono in un nulla di fatto
In questa storia dai contorni sfumati e dal difficile accertamento, le indagini sono tuttora in corso. Eppure andrebbe ricordato che qualche anno fa fu aperto dalla magistratura un fascicolo di inchiesta (rimasto tale, gli accertamenti sono risultati oltremodo difficili) su alcuni casi di braccianti morti in circostanze poco chiare: i corpi presentavano segni di violenza, uno era stato addirittura bruciato, benché i casi fossero stati archiviati come “morti naturali”.
Le inchieste sulle violenze nei campi devono spesso oltrepassare una fitta coltre fatta di silenzi, non detti, omertà, paura di ritorsioni. Per questo spesso si risolvono in un nulla di fatto. Come accaduto in alcuni processi che si sono aperti in questi anni, ci sono braccianti che vengono minacciati e che non confermano le testimonianze fornite inizialmente, accanto ad altri che tengono duro contro i loro aguzzini.
I morti di questa estate fotografano la complessità della nuova situazione. Accanto ai lavoratori stranieri (e quindi al popolo dei ghetti, alle dure condizioni igienico-sanitarie, al caporalato che sfocia in casi di vera e propria riduzione in schiavitù) si assiste al cristallizzarsi di due fenomeni intrecciati tra loro.
Un fronte molto variegato
Da una parte ci sono molti lavoratori italiani (soprattutto donne) che in questi anni hanno continuato a lavorare nei campi sotto caporale e che continuano a farlo in condizioni spesso peggiori di prima, come testimonia la storia di Paola. Dall’altra si assiste al “ritorno” nei campi (anche in questo caso sotto caporale) di molti lavoratori che in questi anni di crisi hanno perso un posto di lavoro: idraulici, elettricisti, muratori, ex impiegati nei servizi.
Così è venuto a delinearsi un nuovo mondo del lavoro bracciantile estremamente stratificato. Se a volte le azioni contro il caporalato risultano spuntate, ciò non accade solo perché questo si è eretto a sistema, o perché negli anni di crisi dell’agricoltura è diventato per molti un efficace strumento di compressione del costo del lavoro, ma innanzitutto perché risulta estremamente difficile ricomporre un fronte dei lavoratori.
Da una parte ci sono i braccianti stranieri, che a loro volta costituiscono un mondo variegatissimo: ci sono gli africani e gli europei dell’est; i cittadini europei, i richiedenti asilo e quelli sprovvisti di un permesso di soggiorno; quelli che vivono nei ghetti e quelli gestiti dalle cooperative; quelli impiegati per poche settimane e quelli che vivono nei casolari anche nelle altre stagioni; quelli che migrano da una raccolta all’altra e quelli più stanziali; quelli che fanno lo stesso lavoro da anni, quelli che – come altri lavoratori italiani – sono stati espulsi magari da un lavoro in fabbrica nelle regioni del nord; e quelli appena approdati in Italia che provano a racimolare pochi spiccioli prima di proseguire altrove.
E poi ci sono i lavoratori italiani, il cui mondo – da provincia a provincia del sud– non è meno vario, e che quanto meno testimonia come a lavorare nei campi ci sono diverse generazioni, anche donne di cinquant’anni con tre figli.
Non servono leggi speciali. Serve un contesto di trasparenza e controllo
Accanto a queste difficoltà di natura sindacale, nel senso più profondo del termine, se ne aggiungono altre più strettamente politiche. Non è vero che negli ultimi anni non sia stato fatto niente contro il caporalato.
Nel 2007 è stata varata una legge regionale pugliese per l’emersione del lavoro nero (che prevedeva, almeno in teoria, sanzioni pesanti per le aziende che vi fanno ricorso) e nel 2011 il parlamento ha approvato un decreto legge che con l’articolo 603-bis ha introdotto il concetto di grave sfruttamento lavorativo nel nostro sistema penale. Tuttavia i due testi normativi hanno fatto fatica ad aprire una crepa nel muro di gomma.
Perché? Perché accanto all’azione normativa e – in alcuni casi – repressiva, è risultata carente un’azione sociale e politica più vasta, che avrebbe dovuto coinvolgere tutti: non solo i sindacati e i braccianti, siano essi italiani o stranieri, ma anche gli enti locali, le associazioni degli agricoltori, la stessa cittadinanza.
Tre proposte
Non servono ulteriori leggi speciali. Serve piuttosto un contesto di trasparenza, controllo, sanzione culturale e sociale (oltre che giudiziaria) all’interno del quale possano divenire stabili delle misure già ideate o appena abbozzate negli ultimi anni. Ne cito solo tre a mo’ di esempio.
a) La creazione di liste di prenotazione presso i centri territoriali dell’impiego. Bisogna individuare un luogo pubblico in cui, aggirando il ruolo dei caporali, domanda e offerta si possono incontrare. I braccianti si iscrivono nelle liste, i datori di lavoro vi accedono e li mettono in regola, agevolati magari da sgravi fiscali.
b) Sostenere la mobilità alternativa nei campi. Il caporale non è solo colui che controlla la manodopera, è anche quello che la trasporta su furgoni e furgoncini. Qualche anno fa, in alcuni comuni della provincia di Barletta-Andria-Trani, fu sperimentato un sistema alternativo di fruizione dei mezzi pubblici: l’azienda municipalizzata locale ha offerto i propri mezzi ai datori che mettevano in regola i braccianti. L’azione non è andata al di là di una prima sperimentazione, ma potrebbe essere ripensata e articolata meglio.
c) L’istituzione di uno specifico bollino “capofree” per i prodotti agricoli liberi dal caporalato. È stata una misura discussa e approvata negli ultimi mesi della giunta Vendola. A qualcosa di simile ha fatto riferimento anche lo stesso ministro alla politiche agricole Maurizio Martina. Ma finora questa misura non è stata pienamente realizzata.