Il referendum è una delle tre partite perse da Matteo Renzi
La vittoria schiacciante del no al referendum sulla riforme istituzionali porta alla luce un evidente limite politico di Matteo Renzi, in realtà riscontrabile fin da quando è diventato presidente del consiglio e, ancor prima, fin da quando è stato eletto segretario del Partito democratico (Pd).
Questo limite politico è tutto racchiuso nell’incapacità di intendere una politica delle alleanze che vada al di là del proprio ristretto entourage e della retorica del sindaco d’Italia, alla guida di un compatto, coeso partito della nazione.
Il referendum (nella vittoria plurale di tanti no, non riconducibili a unità) dimostra innanzitutto che l’Italia è un paese molto più complesso delle semplificazioni fornite dal discorso renziano. In questa sconfitta della semplificazione (che ha finito per assumere toni messianici sulle sorti del referendum) c’è buona parte della sconfitta renziana.
A uscire sconfitta è l’idea di autosufficienza. Quella stessa idea che in fondo è uscita sconfitta ai tempi in cui Veltroni fu candidato premier del Pd. Già allora il Pd si dimostrò un partito non autosufficiente (come del resto non lo è mai potuto essere nessuno in Italia. Non lo è stato mai il Pci, e per molti decenni neanche la Dc). Renzi in questi anni ha radicalizzato l’utopia dell’autosufficienza, trascinandola dal campo del partito a quella della propria leadership. Come se una sorta di autosufficienza renziana potesse bastare a governare non solo il paese, ma lo stesso Pd, la stessa sinistra, dopo averla spaccata in due come una mela.
Il campo aperto delle possibilità
Nel referendum Renzi non ha solo cercato una legittimazione elettorale anomala, perché esterna al gioco delle normali elezioni. Ha voluto contemporaneamente vincere tre partite sullo stesso tavolo. Contro Berlusconi e ciò che resta del centrodestra, contro il fronte demagogico rappresentato da Matteo Salvini e il Movimento 5 stelle, contro la sinistra interna.
Sommandole tra loro, le ha perse tutte e tre, e lo ha fatto minando come mai prima d’ora la stessa unità nel proprio campo politico. Più che ai tempi di Bettino Craxi, per intenderci, che comunque il referendum sulla scala mobile nel 1985 seppe vincerlo.
Da qui nasce una prima domanda. Se Renzi cercava davvero una legittimazione popolare, perché non è andato subito a elezioni anticipate costringendo la sinistra interna ed esterna al Pd ad allearsi, come avviene in fondo a fasi alterne da 20 anni a questa parte, contro i vari avversarsi conservatori o demagogici? Perché non costringere l’altra sinistra a un percorso unitario e al diktat del voto utile, anziché sospingerla verso il fronte opposto in una consultazione che non prevede un confronto elettorale classico? Perché personalizzare a tal punto lo scontro, mescolando tra loro i tre piani del gioco politico in atto?
La prima risposta che si può dare a questo novero di domande è che Renzi abbia avuto troppa fiducia nel suo carisma, e nelle capacità di semplificare la lotta politica in Italia puntando tutto, ancora una volta, sull’autosufficienza della propria leadership. Per questo, la scelta di dimettersi non appena la sconfitta è parsa evidente nel cuore della notte è stata coerente, benché non si tratti – come lui stesso ha lasciato intendere – di una prima volta. Lo fece, per esempio, anche D’Alema dopo la sconfitta nelle regionali del 2000. Ora il campo delle possibilità per uscire dalla crisi che si è venuta a creare appare più che mai aperto.
La vittoria del no non segna nessuna ‘frattura antropologica’ nel corpo elettorale
Venuta meno l’idea di autosufficienza, dopo questo voto sarà avviata comunque una fase di ricomposizione dell’arco delle alleanze. Strategicamente il pallino può essere nelle mani della sinistra del Pd. Dopo la battaglia interna (che ovviamente è stata solo una delle battaglie che si sono confuse tra loro nel test referendario) spetta a quest’area gettare sul tavolo una chiara alternativa politica. Finora – e su questo Renzi non ha tutti i torti – le sue azioni sono state orientate al più riduttivo tatticismo, in un andirivieni spesso contraddittorio, teso più a mettere in difficoltà il premier che non a far scorgere ai propri stessi elettori una visione diversa delle cose. Se non sarà in grado di farlo ora, nei prossimi mesi, non potrà continuare ad accusare Renzi, come ha spesso fatto, di essere l’unico responsabile dello scollamento del partito dal paese reale.
Quel paese che trasversalmente ha voltato le spalle al progetto di riforma va innanzitutto interpretato. È superficiale parlare di voto di rivolta. Ed è ancora più superficiale parlare di ondata trumpista in Italia, e non solo perché paradossalmente, nelle ultime settimane, le maggiori simpatie verso il successo di Trump sono venute proprio da giornali organicamente schierati a favore del sì.
Il punto è che è semplicemente insensato accusare di xenofobia o di demagogia (o ancora peggio di ignoranza, con sommo sprezzo per il gioco democratico) chi semplicemente ha creduto, e lo ha fatto in massa, che la riforma fosse concepita male e proposta agli elettori con parole fredde e distanti.
La vittoria del no non segna nessuna “frattura antropologica” nel corpo elettorale. La sconfitta di Renzi è unicamente politica. E manda in frantumi la costruzione mediatica (e ideologica) del “partito della nazione” pronta a sancire la leadership duratura di un unico capo. Per rovescio, andato in frantumi questo posticcio tetto di vetro, sono emerse le tante sotto-nazioni politiche, sociali, regionali di cui è fatto questo paese.
Il no del sud è stato prodotto dalla dimenticanza della questione meridionale da parte dei vertici nazionali del Pd
Oggi questa frantumazione appare più forte che in altre epoche e – a conti fatti – era illusorio pensare che potessero essere ricomposte a colpi di referendum. Cosa che tra l’altro, in epoche ben diverse, non è accaduto neanche con il referendum sul divorzio nel 1974 o con quello sul superamento del proporzionale nel 1992.
In questa certificazione dei tanti solchi che attraversano il paese, emerge in maniera più evidente di altri fattori una marcata secessione del sud del paese dal progetto del “partito della nazione”. Qui il no ha vinto con percentuali nettamente più alte che nel resto d’Italia.
Il no del sud non è stato semplicemente un voto di rivolta, né è stato unicamente il prodotto del rancore delle periferie. È stato innanzitutto un voto prodotto dalla dimenticanza della questione meridionale da parte dei vertici nazionali del Pd. Semplicemente, in questi anni, Renzi e il sud hanno parlato due lingue diverse, hanno fatte proprie due retoriche opposte, e chi ha voluto in questi mesi costruire il partito della nazione se ne è poco curato pensando che bastasse chiedere più poteri al governo centrale per lenire le fratture (errore questo che nella prima e nella seconda repubblica nessun leader politico che mirasse, nel bene e nel male, alla guida del paese ha mai commesso in maniera così fragorosa).
Una stagione incerta
Così hanno votato in massa per il no ciò che resta del ceto medio, i professionisti, i lavoratori, chi vive nelle grandi città e chi in provincia. E lo hanno fatto indipendentemente dall’appartenenza politica, dal momento che tra loro c’è anche una buona dose di elettori e dirigenti Pd. Si pensi, per esempio, allo stesso presidente della regione Puglia Michele Emiliano che ha guidato (dentro il Pd) il fronte dei governatori contro il sì con toni molto duri.
Adesso, indipendentemente dai tempi che ci vorranno per approvare o meno una nuova legge elettorale e per andare a nuove elezioni, si apre una stagione incerta. Ci sono due strade percorribili: quella della ulteriore frantumazione politica e sociale, con il ricorso strutturale a governi tecnici o di larghe intese, con il rischio di uno scollamento ancora maggiore di quello avallato dalla stessa autosufficienza renziana; e quella della ricomposizione di un nuovo sistema di alleanze funzionale a un progetto politico diverso. È davvero possibile tutto questo?
La partita è innanzitutto interna al campo del centrosinistra. Mai come ora lacerato. Mai come ora aperto a una possibilità di rimescolamento. Il Movimento cinque stelle aspetterà l’evolversi della situazione rintanandosi in una opposizione dura e frontale fino a nuove elezioni. Berlusconi coltiverà invece lo stesso sogno che coltiva dal 2013, senza variazioni: tornare a essere centrale, quanto meno non del tutto marginale, nel grande scacchiere delle trattative che la politica italiana sa offrire a ogni tornata convulsa.