Per interpretare le scissioni e le diatribe interne al mondo dei radicali, le lettere di scomunica lanciate dagli uni agli altri, le rotture insanabili e i litigi sull’eredità politica a meno di un anno dalla morte di Pannella, può risultare utile leggere due libri usciti di recente. Più ancora che nei resoconti di cronaca, è nei tentativi di interpretare la lingua, la strategia politica, l’impatto sulla società e sulla cultura nostrane del leader scomparso che è possibile intravedere qualche spiraglio.

Si tratta di due libri interni, per certi versi, alla stessa galassia radicale: L’illuminato. Vita e morte di Marco Pannella e dei radicali di Giovanni Negri (Feltrinelli) e Pannella. La vita e l’eredità di Diego Galli (Castelvecchi). Negri è stato segretario del Partito radicale negli anni ottanta, in uno dei momenti più alti della storia di quel partito, per poi lasciarlo insieme alla politica attiva. Galli invece lavora da molti anni a Radio Radicale.

Sono libri speculari, sembrano quasi seguire un dialogo a distanza, nel tentativo di interrogarsi sull’eredità di un leader che per mezzo secolo è stato summa e sintesi della vita interna al partito, tanto che è inevitabile pensare che gli smottamenti prodotti dopo la sua scomparsa siano in realtà più un prodotto della sua lunga gestione di quella vita interna, che non un effetto della sua scomparsa. Tale idea, per esempio, è stata espressa di recente anche da Massimo Bordin, storica voce di Radio Radicale, nella sua rubrica su Il Foglio.

Cosa rimane, oggi, dell’eredità di Marco Pannella? Rimane soprattutto un modo di intendere la politica e la comunicazione politica che nel corso della metà del novecento ha fatto la propria fragorosa irruzione in un paesaggio politico ossidato intorno al confronto bloccato tra la chiesa democristiana e la chiesa comunista.
Negri parla di fiume carsico radicale.

C’è in quella stagione di vita dei radicali l’essere stati un contraltare innovativo, quasi sempre irriverente, della sinistra

Pannella ha avuto la grande capacità di amalgamare una serie di eresie, spesso non collimanti tra loro, altre volte molto più antiche della stessa storia del partito. L’esperienza dell’estrema sinistra storica di Bertani e Cavallotti, il liberalismo ottocentesco, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Il Mondo di Pannunzio, la new left statunitense, un certo anarchismo, un certo rigorismo cristiano, un certo libertarismo anglosassone… Ma la grande novità è stata quella di trasportare questo bagaglio (non privo di contraddizioni interne) nel cuore degli anni settanta del secolo scorso.

In questo, la clamorosa vittoria al referendum per il divorzio è solo la punta dell’iceberg di un sommovimento molto più ampio. Accanto all’irrompere dei diritti civili, e alla capacità di leggere le mutazioni profonde della società italiana, c’è in quella stagione di vita dei radicali innanzitutto l’essere stati un contraltare innovativo, quasi sempre irriverente, della sinistra e, soprattutto, della nuova sinistra.

Pietre d’inciampo
L’attenzione alla sfera dei diritti più che alla mitologia della rivoluzione, alle minoranze più disparate e irregolari più che alla centralità della classe operaia, il rifiuto della violenza in favore della nonviolenza di Gandhi o di King, l’esortazione salveminiana a ottenere una trasformazione concreta, qui e ora, senza rimandarla al domani di un trionfo rivoluzionario, l’antimilitarismo, la critica netta di codici e comportamenti fascisti, clericofascisti, giustizialisti, ancora presenti nella cultura e nelle istituzioni italiane furono spesso una pietra di inciampo, quando non di scandalo.

La massima espressione del pensiero politico pannelliano rimane, ancora oggi, la lettera-prefazione scritta nel 1973 per un libro di Andrea Valcarenghi, allora direttore della rivista Re Nudo. Il libro si chiama Underground a pugno chiuso, e Pannella scriveva, in quello che Pasolini definì “un avvenimento nella cultura italiana di questi anni”:

Tu sei un rivoluzionario. Io amo invece gli obiettori, i fuori-legge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i nonviolenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della destra storica. Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se ‘rivoluzionario’. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuol essere onesti ed essere davvero capiti, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri e alle ideologie. Credo sopra a ogni altra cosa al dialogo, e non solo a quello ‘spirituale’: alle carezze, agli amplessi, alla conoscenza come a fatti non necessariamente d’evasione o individualistici – e tanto più ‘privati’ mi appaiono, tanto più pubblici e politici, quali sono, m’ingegno che siano riconosciuti.

Bastano queste poche righe per capire quanto alieno potesse apparire Pannella, e per dedurre che – si sia d’accordo o meno con molte delle sue battaglie, polemiche, prese di posizione – siamo in presenza di uno dei più acuti intellettuali politici e oratori in lingua italiana dal secondo dopoguerra in avanti.

Decennio dopo decennio, il Partito radicale ha seguito l’alterità e la stratificazione culturale del suo leader, fino a modellarsi su di esso. Non a caso, in una strategia politica che preferisce la comunicazione, la forza della parola detta, scambiata, inventata, all’amministrazione diretta della cosa pubblica, la radio ha assunto una dimensione così centrale. Radio Radicale non è semplicemente l’emittente della galassia radicale (oltre che essere diventata, negli anni, uno straordinario archivio della vita pubblica di questo paese). Radio Radicale è il mondo radicale, coincide con esso. È il contenitore che contiene tutto e il contrario tutto, in un partito che ha fatto della pluralità e della non omologazione la propria cifra, e della dimensione orale più che scritta la base del dialogo interno ed esterno.

La prime crepe
Tuttavia, prima ancora della ricerca di alleanze tattiche ora con il centrodestra ora con il centrosinistra nella seconda repubblica, questo modo di intendere la politica ha mostrato le sue crepe già alla fine degli anni ottanta.

Come scrive Galli nel suo libro, l’eresia del Partito radicale è coincisa spesso con il suo limite. Nel momento in cui Pannella ha evitato di costruire un partito in forma classica, per evitare l’inevitabile degenerazione burocratica interna, non ha potuto sottrarsi alla personalizzazione intorno alla sua stessa leadership. Detto in altri termini: il carisma di Pannella ha trovato sempre meno argini in una struttura snella e che si è voluta come anti-partitica. Così, in molti momenti della storia radicale, è stato proprio il rifiuto di una eccessiva istituzionalizzazione a produrre paradossalmente un rafforzamento della leadership carismatica, con tutti i limiti che ciò comporta.

Le vicende delle scissioni post-pannelliane possono allora essere lette anche sotto questa lente, come un prodotto della “disorganizzazione scientifica” operata dallo stesso leader quando era in vita. Da quando ha deciso di fatto di sciogliere il partito e la militanza radicale in una miriade di associazioni e movimenti tematici tenuti insieme – ancora una volta – solo dal medium della radio.

Negli anni del crollo della prima repubblica, Pannella avrebbe dovuto assumere la guida di ciò che rimaneva dell’area laica e socialista

Per Negri c’è un momento preciso in cui Pannella ha rifiutato di assumersi fino in fondo le responsabilità della sua leadership (e del suo carisma). Negli anni del crollo della prima repubblica, avrebbe dovuto assumere la guida di ciò che rimaneva dell’area laica e socialista, dopo la crisi del Psi.

Non volle farlo, proprio lui che aveva anticipato molte delle innovazioni della Seconda repubblica, a cominciare dal passaggio al maggioritario. Tuttavia, dice ancora Negri, “resta vero, incontestabile, che Marco Pannella non si sia mai voluto sottoporre al test finale della compatibilità con i poteri costituiti e non sia mai voluto passare sotto le forche caudine del potere in Italia, laiche o cattoliche che fossero. Questa scelta l’ha pagata con un lungo isolamento e poi con una sorta di annichilimento politico”.

Le scissioni ultime allora sono anche il prodotto di questo annichilimento più o meno deliberato.

Cosa resta dell’esperienza radicale, oggi? Per Negri, la necessità di tornare al fiume carsico per aggiornarlo. Operazione, questa, che forse può contribuire a creare un antidoto al conformismo della politica italiana.

Per Galli, invece, esiste una serie di eredità. Non solo quella ideale, del fiume carsico. Ma anche l’eredità delle pratiche (dalla nonviolenza attiva alla disobbedienza civile, alla lotta per allargare ulteriormente la sfera dei diritti); l’eredità di un modo di intendere la politica fortemente ancorata alla praxis e all’ottenimento di obiettivi concreti, l’eredità degli stessi errori.

Resta infine, credo, la smilitarizzazione del linguaggio politico italiano. E la consapevolezza – oggi sempre più minoritaria – che la politica che conta sia innanzitutto critica della politica, e quindi critica del discorso dominante, dei suoi avvitamenti, dei suoi buchi neri.

Basta ascoltare questo vecchio intervento di Pannella dopo l’omicidio di Giorgiana Masi, a Roma, nel 1977. Oppure ricavare una citazione tra le tante, da uno dei suoi tanti discorsi.

Come questa. Era l’anno di Tangentopoli, il 1992 delle stragi e del crollo della prima repubblica, e Pannella diceva:

Adesso sono di moda i giusti. Loro sono sempre in buona fede. Hanno sempre bisogno di indicare alla plebe chi bisogna impiccare. Non conoscono una delle più belle massime di Pascal: ‘Chi vuol essere angelo è bestia…’. Ma non dimentico che i santi peccano sette volte al giorno, e che la democrazia ha un bisogno insopprimibile di umiltà. Credo che ogni politico serio dovrebbe ammettere almeno sette errori al giorno. E non scagliare esclusivamente pietre contro gli altri. In politica coloro che scagliano sempre la prima pietra appartengono alla razza dei giustizieri che divorano la giustizia invece di amarla.

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