David Thesmar, a sinistra, e Simone Spetia al Festival dell’Economia di Trento, il 31 maggio 2014. (Romano Magrone, Festival dell’economia di Trento)

Anche l’economia è piena di luoghi comuni. Circolano opinioni e concetti la cui diffusione, ricorrenza o familiarità li rende verità ovvie e di facile presa sull’opinione pubblica. Il problema è che i luoghi comuni non sono necessariamente veri e, spesso, diventano slogan ed etichette grazie alle quali le aziende e i politici cercano di proteggere i loro interessi. Questo meccanismo, ha spiegato David Thesmar, economista dell’Ecole des hautes études commerciales di Parigi intervenuto al festival dell’economia di Trento, non è certo estraneo alla crisi scoppiata nel 2008. Ecco alcuni esempi.

Per uscire dalla crisi bisogna reindustrializzare le nostre economie. Nell’Unione europea si parla sempre più spesso della necessità di tornare all’industria manifatturiera, considerata l’unico settore in grado di garantire una crescita stabile, solide esportazioni e nuova occupazione, soprattutto per i lavoratori meno qualificati. Ma è davvero così? Il declino della produzione manifatturiera nel mondo sviluppato non è cominciato con l’ultima crisi, ha osservato Thesmar, ma va avanti da almeno trent’anni.

Negli Stati Uniti si parla di un ritorno del manifatturiero grazie all’energia a basso costo garantita dalle riserve di gas e petrolio estratte grazie al fracking, ma in realtà è solo una leggere risalita dopo un crollo che si è accentuato negli ultimi anni. Al pil statunitense danno un contributo decisivo settori di servizi come l’istruzione e la sanità (+12,2 per cento di occupati dal 2008) e servizi professionali (+4,1 per cento). Da anni, ha aggiunto Thesmar, le economie ricche hanno deciso di puntare sui servizi. Sono come una famiglia che con i primi soldi compra oggetti concreti come i mobili o gli elettrodomestici ma poi, quando aumenta il reddito, consuma sempre più servizi come i viaggi, la ristorazione, le colf. Il problema è che nel dibattito pubblico non si considera abbastanza il peso dei servizi nell’economia. “Si tiene conto di un turista straniero che pranza in un ristorante francese?.

Le multinazionali non producono direttamente nei loro paesi d’origine, ma è da lì che guidano le loro attività, esportando servizi di marketing, di ricerca e di progettazione. La Apple non ha nessuna fabbrica negli Stati Uniti, e direttamente non ne ha neanche in Cina o in altri paesi. Si limita a progettare e commercializzare i suoi prodotti”, eppure è di fatto una grande azienda manifatturiera statunitense. Ma se il ritorno all’industria manifatturiera è solo un luogo comune, chi ha interesse a diffonderlo? Per esempio i grandi imprenditori di settori in declino, che possono contare su forti appoggi politici e, spingendo per misure di protezione e incentivazione delle loro attività, incasseranno sussidi (sia per la ricerca sia per l’occupazione) e leggi favorevoli. Ne beneficeranno anche i sindacati, che proteggeranno i posti di lavoro in pericolo, e alla fine anche i politici che cercano di aumentare consensi o non almeno di non perderli.

La concorrenza danneggia l’economia. In molti paesi i cittadini sono convinti che la concorrenza distrugge i posti di lavoro. Secondo l’indagine World value survey, in Europa i più scettici sono i francesi, seguiti da polacchi e olandesi. Luogo comune o verità? Secondo gli economisti, la concorrenza ha sicuramente un vantaggio: aumenta l’offerta e quindi fa calare i prezzi. Thesmar fa l’esempio della comparsa di Uber, l’app per smartphone che permette di trovare macchine private per servizi di trasporto. I tassisti sostengono che Uber li farà scomparire, ma in realtà protestano perché l’app californiana farà calare le loro entrate. Uber non ridurrà certo la quantità di lavoro nel settore. Altri dicono che la concorrenza abbassa la qualità dei servizi e l’innovazione. Ma nel settore delle telecomunicazioni, ha osservato Thesmar, in particolare quello della telefonia mobile, la maggiore concorrenza ha aperto la strada a servizi e offerte innovative. Basta pensare all’introduzione delle offerte in cui di paga una quota mensile fissa per ottenere un insieme di servizi (chiamate, messaggi, navigazione sul web) prima venduti separatamente e a costi maggiori. A chi fa comodo questo luogo comune? Senz’altro alle aziende già presenti su un mercato, ha risposto Thesmar, che si vedono minacciate dall’innovazione e hanno tutto l’interesse ad alzare barriere all’ingresso nel settore.

Se le banche sono costrette a ricapitalizzare, diminuirà la loro capacità di prestare. La crisi del 2008 ha provocato enormi buchi di bilancio nelle banche. Falle che sono state prontamente tappate dall’intervento dello stato, cioè dei contribuenti. Ancora oggi, comunque, molti istituti hanno la necessità di aumentare il capitale per centrare l’obiettivo del risanamento. I gruppi che rappresentano il settore bancario, per esempio l’Institute of international finance, hanno subito messo in guardia politici e opinione pubblica: ricapitalizzare vuol dire far aumentare il costo del capitale per le banche e quindi danneggiare la loro capacità di fornire prestiti alle imprese e ai cittadini. Questo vuol dire danneggiare l’economia, perché con meno prestiti alle imprese e ai consumatori non ci sarà la ripresa. Tutto vero? O un altro luogo comune? Forse dietro questa paura per le sorti dell’economia globale si nasconde la paura degli azionisti delle banche per i loro investimenti: con la ricapitalizzazione diminuisce la loro quota di capitale e quindi il loro potere in azienda. E la capacità di erogare prestiti? Secondo Thesmar, migliora: la ricapitalizzazione rende una banca più sicura e quindi riduce i rendimenti richiesti da chi la finanzia.

Ecco il video integrale della conferenza.

Alessandro Lubello è l’editor di Economia di Internazionale.

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