Il 6 novembre 2014 Mario Draghi ha annunciato che la Banca centrale europea (Bce) manterrà al minimo storico dello 0,05 per cento il suo principale tasso d’interesse, cioè quello applicato alle banche che si riforniscono di liquidità dalla Bce.

Inoltre l’istituto di Francoforte estenderà il suo bilancio da duemila a tremila miliardi di euro, garantendo un’ulteriore iniezione di liquidità al sistema finanziario. Draghi, infine, ha sottolineato che il consiglio direttivo della Bce è disposto “unanimemente” (quindi anche con il consenso della Germania, finora contraria a interventi troppo decisi della Bce) a introdurre “se necessario” (se la situazione dell’eurozona dovesse peggiorare) altre misure “non convenzionali” (come l’acquisto in grandi quantità di titoli di stato e obbligazioni private, il cosiddetto alleggerimento quantitativo).

Ancora una volta, dopo il “whatever it takes” del luglio del 2012, quando dichiarò che avrebbe fatto tutto il possibile per salvare la moneta unica, Draghi continua a essere uno dei pochi punti di riferimento nella crisi dell’eurozona.

Il suo annuncio è una presa di posizione contro il ritorno della recessione e, soprattutto, contro il pericolo della deflazione. Il problema è che gli interventi della Bce non possono bastare senza un’azione altrettanto decisa della politica. Le misure monetarie ridanno fiato al sistema finanziario e ai governi, permettono di prendere tempo.

Intanto nelle capitali europee dovrebbero partire le riforme necessarie per superare non solo temporanee difficoltà finanziarie, ma una crisi strutturale che richiede grandi investimenti (pubblici e privati) e una profonda riforma del sistema produttivo. Per fare questo, serve la politica e soprattutto leader che prendano decisioni in molti casi impopolari e in grado di dare i loro frutti nel lungo periodo, sicuramente dopo le classiche scadenze elettorali.

Riformare l’economia europea vuol dire anche costruire un sistema più equo a cui contribuiscano tutti in base alla loro ricchezza. Nell’Unione europea diversi paesi concedono vantaggi fiscali per attirare imprese e i grandi patrimoni privati sul loro territorio, favorendo in molti casi l’evasione e l’elusione fiscale.

In questi giorni è esploso il caso del Lussemburgo, il paese del neopresidente della commissione europea Jean-Claude Juncker, che è stato premier del Granducato dal 1995 al 2013. L’International consortium of investigative journalists ha pubblicato più di 28mila pagine di accordi e carte riservate, analizzate dalle redazioni di diversi giornali, su accordi fiscali che permettevano ai clienti del Lussemburgo, spesso aziende multinazionali come l’Ikea o la Deutsche Bank, di pagare meno tasse, con metodi legali ma sottraendo miliardi di euro (e dollari) di imposte ad altri paesi.

Meccanismi simili esistono in altri parti d’Europa, per esempio nei Paesi Bassi, e sono stati permessi e tollerati nonostante il ciclico annuncio di immediate misure di armonizzazione dei sistemi fiscali. I Luxleaks dimostrano che quegli annunci sono rimasti lettera morta e che se l’Europa vuole superare la crisi ha bisogno non solo di ottimi banchieri centrali ma di una politica più forte.

Alessandro Lubello è l’editor di economia di Internazionale.

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