Due giorni fa sono stato allo stadio Azteca a vedere una partita del campionato di calcio messicano. Per chi si interessa anche solo un po’ a questo sport, il nome dovrebbe dire tanto. È lo stadio dove si giocò, durante i mondiali del 1970, la “partita del secolo” tra Italia e Germania, decisa dal gol del 4 a 3 di Gianni Rivera alla fine del secondo tempo supplementare.

Ed è lo stesso dove, 16 anni dopo, Diego Armando Maradona segnò due dei gol più celebri della storia del calcio.

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L’Azteca si trova nella parte sud di Coyoacán, una delle sedici delegazioni (entità territoriali e amministrative) che compongono la capitale messicana. Lo stadio si raggiunge percorrendo la linea blu quasi fino al capolinea, da dove si prende un microbus scassato e sempre affollato che dopo aver camminato a passo d’uomo per quaranta minuti lascia i suoi passeggeri di fronte all’entrata dello stadio.

Coyoacán è considerato uno dei quartieri più dinamici e più ricchi dal punto di vista culturale: ospita, tra le altre cose, l’Università nazionale autonoma (Unam), l’istituto italiano di cultura e alcuni dei musei più belli della città, come quelli dedicati a Frida Kahlo e a Lev Trotskij. E anche una delle zone più belle di Città del Messico, con uno stile coloniale e decine di piazzette piene di persone a tutte le ore del giorno e della notte.

Tornando alla partita, l’11 maggio si sono affrontate le aquile del Club América e i Pumas dell’Unam, la squadra dell’università. Entrambe sono di Città del Messico, e la loro è una delle rivalità più accese e sentite dell’intero campionato. Il Club América, che gioca in divisa gialla, è una delle società più antiche della lega (compirà 100 anni nel 2016), ed è storicamente la squadra delle classi popolari di Città del Messico.

Questo, almeno, è quello che vi dicono i tifosi delle Aquile quando gli chiedete di spiegare la rivalità cittadina. Se fate la stessa domanda a uno dei Pumas, vi dirà che il Club América è una squadra senza identità né tradizione perché compra solo giocatori stranieri, che è il simbolo del potere (corrotto) per via dei suoi legami con il gruppo televisivo Televisa (che è anche proprietaria dell’Azteca e che è considerata da molti il nemico pubblico numero uno).

A loro volta, le Aquile risponderanno che quelli dell’Unam sono degli snob, degli intellettuali da salotto che non possono apprezzare una cosa popolare come il calcio. Ah, poi ci sarebbe il Cruz Azul, la terza squadra della città, i cui tifosi sono anche loro (ovviamente) convinti di essere gli unici a incarnare lo spirito calcistico della capitale.

Quanto alla partita, poco da dire sul gioco, a parte che il livello tecnico è bassissimo e l’organizzazione tattica quasi inesistente. Quello che mi ha colpito di più è che l’evento è totalmente dominato da un modello commerciale molto più simile a quello degli sport statunitensi che a quello europeo: pubblicità martellante prima e dopo la partita, mascotte che girano per il campo, siluri che lanciano magliette, palloni e altri gadget al pubblico e, soprattutto, tanto, tantissimo cibo. La varietà (e la quantità) delle cose che si possono mangiare è impressionante: frutta, nachos innaffiati da litri di salsa, granite, gelatine, noccioline, carne di maiale e altre cose dall’aspetto parecchio invitante di cui non ricordo il nome.

Per la cronaca, la partita è finita 2 a 1 per il Club América, decisa dalla doppietta di un certo Christian Benítez, detto El Chucho. Anche grazie alla vittoria dell’andata, le Aquile passano alla semifinale della luiguilla (i playoff che decideranno chi vincerà il campionato). Se la vedranno tra qualche giorno con i temibili Rayados di Monterrey. Dall’altra parte del tabellone c’è il Cruz Azul, e qui già tutti sperano in un altro clásico.

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