La terza giornata del festival di giornalismo del Faro è stata tutta dedicata al futuro dei giornali e dei giornalisti, con un occhio particolare alla situazione nel continente latinoamericano. Più di cinquanta giornalisti da decine di paesi – non solo dell’America Latina – si sono seduti intorno a una tavola rotonda e per otto ore (intervallate da una generosa pausa caffè e dal pranzo in un ristorante italiano chiamato Pomodoro) hanno discusso di come affrontare la sfida lanciata al giornalismo da internet, di come creare reti giornalistiche regionali, di come usare le nuove tecnologie e le strategie  di finanziamento non convenzionali per creare modelli editoriali sostenibili. In pratica, di come sopravvivere prosperare.

L’incontro si è tenuto nel museo d’arte di San Salvador, nella Zona Rosa,  una delle più ricche e sicure della capitale. Di sera le strade del quartiere si trasformano in un’unica lunga catena di insegne luminose di McDonald’s, Pizza Hut, Wendy’s, Burger King e altri fast food, ristoranti e distributori di benzina, quasi tutti americani e quasi tutti con una guardia armata davanti all’ingresso. Fucili a parte, potrebbe tranquillamente essere la zona mondana di una qualsiasi città di provincia degli Stati Uniti.

Il primo a prendere la parola è stato Gumersindo Lafuente, guru del giornalismo digitale ispanofono,  direttore della versione online del quotidiano spagnolo El Mundo tra il 2000 e il 2006. Secondo Lafuente il discorso è semplice: internet ha cambiato il giornalismo in modo radicale ed è un’illusione pensare che si possa tornare indietro. I giornalisti hanno due scelte: accettarlo e adattarsi all’idea che d’ora in poi dovranno lavorare con un metodo completamente diverso da quello usato in passato, oppure morire ed estinguersi come i  i dinosauri. 

Qualcuno, come il giornalista peruviano Gustavo Gorriti, ha fatto giustamente notare che il discorso di Lafuente si adatta bene al giornalismo occidentale ma molto meno a quello latinoamericano, dove la questione fondamentale non è tanto quella di trovare un modello alternativo per un mercato vicino al punto di saturazione. In America Latina milioni di persone non hanno ancora accesso – o hanno molte difficoltà ad accedere – all’informazione,  spesso neanche a quella cartacea. Questo elemento rappresenta allo stesso tempo una zavorra (nel senso che la diffusione dei giornali dipende dalla capacità di governi spesso corrotti o impreparati di migliorare le condizioni di vita di milioni di persone che attualmente vivono in povertà) e allo stesso tempo una grande opportunità.

La giornata si è chiusa con l’intervento del giornalista argentino Gabriel Pasquini, direttore del giornale online [El Puercoespin][1], che ha fatto una sintesi efficace degli interventi (non esiste una formula magica che salverà i giornali, si può solo continuare a sperimentare nuovi modi di fare giornalismo) e ha fatto una proposta concreta interessante: creare un’organizzazione giornalistica regionale, una rete di mezzi d’informazione (sia su carta sia sul web) che condivida idee, risorse, contenuti, conoscenze e costi.

Sembra un progetto difficile da realizzare ma fattibile: in fondo la stessa tavola rotonda dimostra che una rete di buoni giornalisti con idee innovative esiste già, anche se a livello informale, e il fatto che quasi tutti parlino e scrivano nella stessa lingua è un vantaggio su cui nessun’altra regione del mondo può contare. Resta da capire quale sarà il modello economico che dovrebbe sostenere il progetto.

Quanto al mio programma alternativo, finora sono riuscito a fare solo una delle cose elencate nel post precedente. Due giorni fa ho preso un taxi (i tassisti sono tutti simpatici e parecchio loquaci, e finora sono l’unico contatto che ho avuto con il “popolo”) e mi sono fatto lasciare in piazza Gerardo Barrios, davanti  alla cattedrale metropolitana, dove ho visitato  la tomba dell’arcivescovo di San Salvador Óscar Romero, ucciso il 24 marzo del 1980 da un cecchino, mentre celebrava messa. Consiglio di vedere il bellissimo documentario che racconta la sua storia. Si chiama El cielo abierto.

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La tomba si trova nei sotterranei della chiesa, all’estremità di una grande sala circolare dove sono affisse le immagini dei più importanti uomini di chiesa della storia del paese. Alle spalle dei resti dell’arcivescovo ci sono i loculi che ospitano altri religiosi uccisi durante la guerra civile (1980-1992), tra cui le quattro suore missionarie statunitensi violentate e uccise il 2 dicembre del 1980 sulla strada che va dall’aeroporto a San Salvador. Se ne parla in questo bellissimo articolo di Alma Guillermoprieto.

Su un altro lato della piazza c’è il Palacio Nacional, un meraviglioso edificio in stile neoclassico che fino agli anni settanta ha ospitato il parlamento salvadoregno.

Tutto intorno, nei quartieri che circondano Gerardo Barrios, centinaia di bancarelle e chioschi in lamiera intasano fino a tarda notte le strade strette e rumorose. Si vende di tutto: frutta, dvd, vestiti, hot dog e tante altre cose.

Oggi invece è la giornata della pupusa. Non accetto di andare a dormire senza aver mangiato una dose consistente di questa delizia locale. Vi farò sapere.

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