Dennis Rodman con i Chicago Bulls (Andrew Cutraro, Afp).

Fino a poco tempo fa poche persone in Italia sapevano chi fosse Dennis Rodman. Poi in tanti hanno visto gli sproloqui di questa strana creatura con la faccia gonfiata dal consumo di chissà quanto alcol e nascosta dietro una maschera di orecchini, con il corpo pieno di tatuaggi, con degli indumenti discutibili addosso e un sigaro sempre nella mano sinistra, e si sono fatti l’idea di un uomo mentalmente disturbato, forse un po’ disgustoso, sicuramente squallido.

È comprensibile, per tutto quello che ha fatto in questi giorni (ieri ha messo una pietra tombale sul suo ruolo diplomatico, e su se stesso, dicendo: “My dreams of basketball diplomacy was quickly falling apart. I had been drinking. It’s not an excuse, it’s just the truth”). Ma per chi lo conosce da prima della misteriosa svolta nordcoreana, è tutto un po’ triste.

Rodman è stato un giocatore formidabile, uno che spesso faceva vincere la partita alla sua squadra senza segnare neanche un canestro, e che quando segnava esultava come se avesse fatto gol in finale dei Mondiali. Era un difensore incredibile, uno dei migliori della storia del basket. Sicuramente è stato il miglior rimbalzista di sempre: era alto “solo” 2.01 ma è riuscito a vincere per sette volte la classifica dedicata a questa specialità. Merito di una tecnica difensiva superiore e di un grande senso della posizione. Era anche un buon passatore: i suoi lanci a due mani da una parte all’altra del campo dopo il rimbalzo erano degni di un quarterback di football. Negli anni ottanta è stato uno dei Bad boys di Detroit, la squadra più tosta – più cattiva – che sia mai comparsa su un parquet. Negli anni novanta ha dato un contributo decisivo nei tre campionati vinti dai Chicago Bulls di Michael Jordan e Scottie Pippen.

Non è mai stato un giocatore tranquillo: provocava gli avversari, commetteva falli bruttissimi, una volta è stato sospeso per sei partite per aver colpito un arbitro con una testata, per gli allenatori era difficile da gestire. Ma aveva anche un’intelligenza cestistica sopra la media: sapeva prendere la decisione giusta in una frazione di secondo, dettava i tempi alla difesa e riusciva a dominare giocatori tecnicamente e fisicamente più forti di lui. Merito anche di una grande etica professionale, della cura meticolosa che dedicava alla sua preparazione atletica.

Ho scelto alcuni video che mi sembrano significativi per raccontare la sua carriera:

La prima tripla doppia della sua carriera, nel 1996 contro Philadelphia.

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La difesa perfetta contro Shaquille O’Neal, in una partita dei playoff del 1996.

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Il record personale di 34 rimbalzi in una partita, quando giocava a Detroit.

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Un bruttissimo fallo su Scottie Pippen, nel 1991.

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Qui invece le sue storie tese con Frank Brickowski, un giocatore che durante le finali del 1996 veniva mandato in campo per far innervosire Rodman e invece alla fine è impazzito lui.

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Sempre nelle finali del 1996, la prestazione eccezionale in gara 6, la partita decisiva della serie. Parecchi momenti esaltanti.

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Due anni dopo, sempre in finale, sempre in gara 6, il duello con Karl Malone.

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Infine il discorso che ha fatto quando è stato inserito nella Hall of Fame, nel 2011, in cui dice che sotto il Rodman appariscente, idiota e testa di cazzo c’è un ragazzo con un buon cuore e molto sensibile.

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Alessio Marchionna lavora a Internazionale dal 2009. Editor delle pagine delle inchieste, dei ritratti e dell’oroscopo. È su twitter: @alessiomarchio

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