Una scrittrice israeliana mi ha contattato una settimana fa. Mi ha detto che era inorridita dall’offensiva israeliana nella Striscia e che voleva scrivere un romanzo ambientato a Gaza. Ho reagito con scetticismo.

Pensavo (a ragione) che non conoscesse i dettagli della vita palestinese e la storia dell’occupazione israeliana. Anche la narrativa richiede ricerche minuziose e una profonda conoscenza del contesto storico. Pochi minuti prima stavo dando un’occhiata al settimanale dell’esercito israeliano Bamahane. La rivista era stata lasciata in una delle case saccheggiate dai soldati.

“Si legga Bamahane”, ho consigliato all’autrice. “Non scriva delle case distrutte e delle persone uccise; scriva di quelli che hanno distrutto e ucciso. Li conosce meglio”.

Questo settimanale è una miniera di informazioni interessanti, tra cui i nomi dei soldati che hanno partecipato all’offensiva. Soprattutto, fa capire molte cose sull’atteggiamento dei militari.

Leggendo gli articoli si sente quant’era forte la loro voglia di combattere e di raggiungere degli obiettivi condivisi. E ci si rende conto che non hanno idea di come l’offensiva è stata vista nel resto del mondo. “Non abbiamo fatto altro che sparare”, dice uno dei soldati. “Per noi sono tutti sospetti, anche chi ci viene incontro sventolando uno straccio bianco”.

In questi giorni ho raccolto molte testimonianze su donne e bambini uccisi mentre sventolavano stracci bianchi. Il portavoce dell’esercito si è limitato a dire che possono essere usati dai terroristi.

La rivista pubblica anche i messaggi scritti sui proiettili di mortaio prima dei bombardamenti: “Gilad Shalit, non ti dimentichiamo”, “Mamma, guarda, sono famoso”, “Oops, indirizzo sbagliato”. Sicuramente la casa di Ziad Abssi, nel campo profughi di Rafah, era un indirizzo sbagliato.

I tre figli di Ziad, che avevano tra i quattro e i dodici anni, sono rimasti uccisi. Anche la casa di Fayyez Salha, a Beit Lahiya, era un indirizzo sbagliato. Sono morti sua moglie e i suoi quattro figli.

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