Forse gli articoli che da due mesi scrivo da Gaza li mando a un quotidiano locale del Nebraska. È la spiegazione che mi sono data dopo aver assistito per giorni a un’inconsueta agitazione nei mezzi d’informazione israeliani per la pubblicazione delle testimonianze di alcuni soldati (i quotidiani Ha’aretz e Maariv e un’emittente tv sono entrati in possesso della trascrizione di un dibattito in un’accademia paramilitare).
Lettori, giornalisti e direttori sono stati sconvolti dalle rivelazioni sulle regole d’ingaggio permissive durante l’offensiva a Gaza, sull’uccisione di civili e sulla distruzione di case e fabbriche.
In breve, tutto quello che i lettori del Nebraska avevano già saputo leggendo le testimonianze di palestinesi che ho raccolto e verificato (vicende note anche a chi legge i rapporti di Amnesty international e i quotidiani britannici).
Dopo qualche giorno, naturalmente, le testimonianze dei soldati sono state liquidate come esagerate o casi isolati. La vicenda è chiusa. Viva il nuovo governo con il vecchio ministro della difesa.
Il problema non è la mia vanità ferita (tra l’altro Ha’aretz ha pubblicato tutti i miei articoli). Il problema è che il lettore israeliano medio li ignora “perché tanto gli arabi sono tutti bugiardi”. Non dovrei essere sorpresa: è un meccanismo che conosco da anni. Espulsioni? Gli arabi sono bugiardi. Torture durante gli interrogatori? Tutte balle. Repressione ai tempi della prima intifada?
Immaginazione orientale. Oslo è una nuova e ingannevole forma di occupazione? Gli arabi non capiscono che è la soluzione ideale per loro. Uso eccessivo della forza durante la seconda intifada? Evidentemente gli arabi ti pagano per pubblicare certe notizie.
Poi, anni dopo, escono fuori rapporti attendibili basati su documenti israeliani segreti oppure sufficientemente vecchi da essere resi pubblici. E tutti confermano la veridicità delle “bugie” palestinesi. Ma la lezione viene dimenticata in fretta.
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