Riesco a immaginare la conversazione nei minimi dettagli. Un uomo di circa 70 anni, dalla salute malferma, mi accompagna nella sua personale odissea: l’ottimismo degli anni dell’indipendenza, con un lavoro di insegnante d’inglese e un’attività sindacale legata al Partito comunista; poi, dopo il colpo di stato del dittatore Suharto, amico dell’occidente e delle multinazionali, quattordici anni di prigionia su un’isola sperduta.
È la storia di centinaia di migliaia di persone in Indonesia. Quando sono arrivata a Jakarta, in occasione di una conferenza delle Nazioni Unite sulla lotta palestinese per l’indipendenza, speravo di entrare in contatto con una di loro. Qui, come altrove, avrei seguito la mia strana inclinazione: setacciare il mondo degli emarginati e denunciare il cinismo delle élite, del presente e del passato.
Il padre di una donna incontrata in città sembrava la persona giusta, ma non mi ha voluto incontrare. La donna aveva pochi anni quando lui fu arrestato, e non l’ha più visto fino al suo rilascio. “Mio padre non parla mai con noi dei suoi anni di prigionia”, racconta la donna. “Quando eravamo bambini non sapevamo nemmeno perché fosse scomparso. Quando è tornato non ha potuto riprendere il lavoro di insegnante in quanto ex prigioniero politico”.
In Indonesia non si discute pubblicamente delle uccisioni di massa di comunisti, atei e cinesi seguite al colpo di stato del 1965 (morirono tra le 500mila e i tre milioni di persone). Nelle scuole la versione ufficiale è ancora che Suharto agì per sventare un complotto comunista. L’ex presidente Abdurrahman Wahid, leader di un’organizzazione musulmana che aveva partecipato alle uccisioni, è stato l’unico a chiedere perdono e a proporre dei risarcimenti. Ma l’esercito, responsabile dei massacri e della successiva repressione a Timor Leste, non si è mai scusato. Non sorprende che i candidati alle prossime elezioni presidenziali siano tutti legati all’apparato militare.
Internazionale, numero 800, 19 giugno 2009
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