Preferisco i tassisti che mi truffano spudoratamente ai camerieri troppo sorridenti e servili nei ristoranti degli alberghi. In entrambi i casi io sono la stessa: un’anonima rappresentante del neocolonialismo, una ricca turista bianca che in un giorno spende quello che una persona normale non guadagna in un mese.

Per esempio, un contadino indonesiano che lavora nelle piantagioni statali, raccogliendo le foglie di tè da essiccare in una vicina fabbrica, prende dodicimila rupie al giorno, meno di un euro. I salari degli operai sono più alti: ventimila rupie al giorno.

Il colore della mia pelle e la mia posizione privilegiata nell’economia globale mi restano incollati addosso. Così, quando ho scoperto che un tassista furbo mi aveva fatto pagare più del doppio, non mi sono arrabbiata. Invece di pensare all’impressione che gli avevo fatto (la solita turista ricca e scema), mi sono soffermata su quello che c’era dietro: un contadino appena arrivato nella capitale in cerca di condizioni migliori per la sua famiglia.

Se tante persone lasciano i bei villaggi dove sono nati (campi di riso e banani che si inerpicano sulle colline dove scorrono sorgenti e fiumi) per trasferirsi in questa metropoli inquinata e trafficata, piena di fogne a cielo aperto, devono avere dei buoni motivi. Imbrogliando noi turisti, riequilibrano leggermente l’iniqua distribuzione della ricchezza globale.

Interi villaggi, mi hanno spiegato, dipendono dalle rimesse delle giovani donne che vanno a lavorare all’estero. È difficile trovare buone domestiche in città, perché le migliori si sono trasferite in Arabia Saudita o in Malesia. Quando sono stata invitata a casa di una coppia di nuovi conoscenti, ho avuto l’occasione di dimostrare che non sono la tipica turista ricca. Come molti professionisti, hanno una domestica ventiquattr’ore al giorno. In casa fa tutto lei: pulisce, cucina e porta le loro pesanti valigie su e giù per le scale. Io, almeno, ho insistito per portare la mia da sola.

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