“Venerdì verrai alla manifestazione di Bil’in contro il muro?”, ha chiesto la mia amica Anat, professoressa di filosofia appena tornata da un periodo sabbatico in Francia. Non ci vedevamo da dieci mesi. Mi sono scusata spiegando: “Ho paura”. Ed era vero.

Evidentemente ho esaurito la mia dose di coraggio. Non ce la faccio più ad affrontare soldati che sparano (anche se solo gas lacrimogeni e pallottole di gomma). Anat ha cercato di convincermi: a Ni’ilin, un villaggio vicino, sì che è pericoloso, ma a Bil’in ci sono posti dove nascondersi.

Il figlio di Anat (che si è fatto due anni di carcere per aver rifiutato la leva) è uno di quegli israeliani che partecipano attivamente alla lotta contro l’occupazione, insieme agli attivisti palestinesi. Di recente uno di questi israeliani – Kobi Snitz, professore di matematica – mi ha raccontato di un’altra forma di repressione: raid militari notturni settimanali contro i due villaggi che continuano a opporsi al muro, arresti continui e processi farsa davanti al tribunale militare.

Pensavo di occuparmene la prossima settimana, ma ho saputo che non potrò incontrare Kobi, perché il 22 settembre è stato condannato a venti giorni di carcere. Da alcuni anni era sotto processo per aver cercato, nel 2004, di impedire ai soldati di demolire una casa nel villaggio palestinese di Kharbath.

Prima di entrare in prigione ha scritto agli amici: “Venti giorni sono poca cosa rispetto alle condanne inflitte a molti palestinesi. Mi hanno messo in prigione perché ho rifiutato di pagare una multa. Durante il processo ho avuto altre opportunità di evitare il carcere, ma non ho accettato compromessi. Io e gli altri arrestati non siamo colpevoli di niente, se non di aver fatto troppo poco per opporci alle politiche criminali del governo. L’équipe legale guidata dall’avvocato Gaby ha fatto un ottimo lavoro e voglio ringraziare anche Nir e Alon di Bimkom (un gruppo di architetti israeliani che chiede l’uguaglianza nella pianificazione urbanistica). No pasaran!”.

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