Mentre scendevo di corsa le scale per andare a un incontro a Tel Aviv, l’anziana vicina ha aperto la porta chiedendo se poteva parlarmi. “Sono in ritardo”, le ho risposto, ma poi ho capito che non voleva fare semplicemente due chiacchiere.

Voleva sapere se potevo accompagnarla a Gerusalemme. A volte le do un passaggio fino a Ramallah e Gerusalemme è solo 15 chilometri più a sud. Ma non è così semplice: muri, recinti e soldati arroganti fanno passare solo gli israeliani e i pochi palestinesi che hanno un permesso. Era chiaro che lei non aveva un permesso.

Di fatto mi stava chiedendo di farla entrare di nascosto. Si capiva che non voleva andare a Gerusalemme per fare shopping o per pregare alla moschea di Al Aqsa. Voleva raggiungere il figlio di 36 anni, che era stato operato in un ospedale palestinese a Gerusalemme Est. Anche lui era entrato senza permesso, non si sa bene come. Gli avevano detto che il reparto di cardiologia dell’ospedale di Gerusalemme era migliore di quello in Cisgiordania.

Il prezzo da pagare era l’isolamento: nessun familiare avrebbe potuto assisterlo. Dato che era entrato senza permesso, la madre non poteva ottenerne uno per stargli vicino. Ho pensato a tutti i posti di controllo che circondano Ramallah, ma ci avrebbero fermate ovunque. Il figlio, malato ma giovane, dev’essere passato per un sentiero di montagna o in un canale per l’acqua piovana, sotto la circonvallazione. Se avessi saputo di una strada dove passare senza problemi, le avrei dato volentieri un passaggio.

Dopotutto suo figlio aveva bisogno di lei. Non aver potuto fare un gesto così semplice mi fa sentire triste e amareggiata.

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