Due sorelle, di dieci e undici anni, mi hanno invitato al loro saggio di fine anno. Negli ultimi mesi ci siamo “adottate” a vicenda, e quindi non potevo e non volevo dire di no, anche se avevo molto da fare. Sono anni che sento parlare di questa nuova attività dei bambini: il circo.

Ora ho capito di che si tratta: un mix di esercizi di ginnastica artistica, profondamente influenzati da posizioni yoga; una divertente variazione di esercizi a terra; alcune prove di abilità con le mani, da clown o giocoliere. Maschi e femmine, di varie età, si esibiscono insieme. Il concetto di competizione e quello di fallimento non esistono: se un esercizio non riesce tutti ridono e battono le mani.

Probabilmente vi starete chiedendo: erano bambini israeliani o palestinesi? Non vi terrò sulle spine: era un evento così “israeliano” che mi veniva da piangere. Ogni suo momento piacevole accentuava l’insopportabile distanza che separa le due metà della mia vita.

Continuavo a pensare ai due posti di blocco che avevo attraversato a fatica pochi minuti prima; alle scuole palestinesi che separano maschi e femmine; alla loro ossessione per la disciplina e l’ordine; alla agente della polizia militare a un terzo posto di blocco che, masticando una gomma e con un piacere speciale, fermava tutte le auto che potevano trasportare arabi; al brutto muro e all’ancor più brutto filo spinato che delimitano i confini di un affollato ghetto a cinque stelle chiamato Ramallah.

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