Gli indiani che vivono nelle riserve sono molto riservati con gli stranieri che entrano nei loro territori. Ne ero consapevole prima di cominciare a occuparmi della loro situazione, ma questo non mi ha risparmiato alcune frustrazioni iniziali: email senza risposta, promesse non mantenute di risentirci e la domanda franca di un non-indiano che ha rapporti stretti con i nativi americani: “Che vantaggi avranno se accettano di incontrarla?”.

Ho capito che avrei dovuto convincerli che non sono bianca. Ma come? Mi sono rivolta agli attivisti degli anni sessanta. Una donna (bianca) vicina alle Pantere nere mi ha messa in contatto con un militante dell’American indian movement (Aim), che fortunatamente conosceva il mio lavoro e, entusiasta, mi ha rimandato a due accademici nativi americani che vivono in Messico.

Purtroppo la donna non conosceva nessun indiano kumeyaay, la principale tribù del sudovest della California. Su Google ho trovato l’indirizzo email di una bibliotecaria kumeyaay. Ho lanciato una bottiglia nell’oceano. Dopo tre giorni la bottiglia è tornata indietro, con la risposta per email: “Per curiosità, come ha fatto a trovare il mio indirizzo?”. Era molto sospettosa. “Semplice”, ho risposto, “è sul sito web della sua tribù”.

La donna non si aspettava che un non-indiano potesse interessarsi alla sua gente. Mi ha telefonato ridacchiando: “Ho cercato il suo nome su Google e ho capito che potevo fidarmi. A quanto pare lei è ai margini come me”.

*Traduzione di Nazzareno Mataldi.

Internazionale, numero 875, 3 dicembre 2010*

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