A giudicare dai talk show radiofonici israeliani, l’evento più importante della settimana è la protesta che il 9 maggio ha interrotto la cerimonia per l’anniversario dell’indipendenza a Gerusalemme. Dodici cittadini (in rappresentanza delle dodici tribù bibliche di Israele) hanno acceso una torcia e pronunciato un discorso. Tra un intervento e l’altro, due ragazzi hanno fatto irruzione sul palco. Erano Yoel, fratello del soldato israeliano Gilad Shalit, prigioniero di Hamas, e la sua fidanzata Yara. Yoel ha gridato: “Mio padre è un fratello a lutto. Non voglio diventarlo anch’io” (lo zio di Yoel è stato ucciso nel 1973 in un carcere siriano). Davanti a una platea ammutolita, alcuni agenti sono intervenuti per allontanare i due giovani.
L’episodio è il punto più alto della campagna per convincere il governo israeliano ad accettare uno scambio di prigionieri con Hamas. È stata una protesta legittima oppure nessuna causa giustifica la violazione della solennità patriottica? È giusto liberare centinaia di prigionieri palestinesi, anche se alcuni di loro si sono macchiati di reati di sangue? Se n’è discusso fino allo sfinimento. L’immagine del soldato prigioniero sta perseguitando molti israeliani. Hamas sa di avere tra le mani “un tesoro” e fa di tutto per mantenerlo in salute. La pressione crescente esercitata dalla famiglia sta mettendo in imbarazzo il governo. Forse i nostri leader non sarebbero così dispiaciuti se venissero a sapere che Shalit non è più in vita.
Traduzione di Andrea Sparacino.
Internazionale, numero 897, 13 maggio 2011
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