Siamo a Duqeiqa, un piccolo villaggio beduino nel sud della Cisgiordania fatto di tende, baracche e qualche costruzione di cemento. Le autorità israeliane vogliono spostarlo a nord, se necessario con la forza. Sono in programma 77 demolizioni.

La piccola scuola elementare è uno degli edifici in attesa di essere demolito. Le aule non hanno l’elettricità perché gli abitanti del villaggio non possono permettersi un generatore. Il tetto è stato coperto con dei teloni di plastica grazie a un’associazione musulmana di Ramallah. Ma il preside della scuola non vuole trasferirsi. Questa terra appartiene alla tribù da molte generazioni.

Il vicino cimitero di epoca ottomana testimonia le radici profonde, la quiete e la bellezza del luogo. “Quando eravamo studenti e tornavamo a casa dalla grande città, Hebron, ci sentivamo come prigionieri liberati”, spiega. “Siamo poveri, certo, ma siamo in pace”. Le ragioni ufficiali dell’espulsione sono le solite: nessuna prova di possesso della terra, impossibilità di attuare un piano di sviluppo edilizio (le regole del dominatore straniero, insomma). Ma il motivo reale è un altro: il villaggio è vicino alla linea verde (il confine del 1967) e Israele vuole annetterlo.

“Non ce ne andremo, questa è terra palestinese”, ripete il preside fino allo sfinimento. “È terra musulmana”, lo corregge un impiegato del ministero dell’istruzione palestinese. E io, vigliaccamente, decido di non provocarlo chiedendogli cosa ne pensa dei cristiani palestinesi.

*Traduzione di Andrea Spracino.

Internazionale, numero 926, 2 dicembre 2011*

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