Il canto del gallo è un segnale universale. Ma quando il pennuto, invece di zampettare in una fattoria della Provenza, appare tra le strade di un campo profughi, il suo canto ha un suono speciale. Qui il gallo, oltre che una fonte di nutrimento, rappresenta anche la nostalgia della vita di villaggio.

A condurmi nel poverissimo campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, non è stato il gallo, ma un’ondata di arresti compiuti dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Mi ha chiamato un amico che vive nel campo da sempre: “Per favore, vieni subito, nessun giornalista palestinese vuole scrivere di quello che è successo”. Non c’è da stupirsi: un commento su Facebook contro l’Anp può costare alcune settimane di carcere, ed è comprensibile che i giornalisti non vogliano scrivere della lotta di potere nelle forze di sicurezza. La maggioranza degli arrestati, infatti, fa parte di questi apparati.

La versione ufficiale è che si è trattato di un’operazione contro le bande armate che hanno seminato il caos a Jenin. Molti degli arrestati sono stati rilasciati senza accuse (dopo essere stati torturati). Altri, pesantemente armati, sono stati trattenuti. Molti vengono da famiglie con un passato doloroso, i cui figli sono stati uccisi dall’esercito israeliano, hanno compiuto attacchi suicidi o si trovano ancora nelle carceri israeliane (e sono tenuti in gran conto dalla società palestinese). Le famiglie degli arrestati si sentono tradite: gli eroi di ieri sono trattati come criminali.

*Traduzione di Andrea Sparacino.

Internazionale, numero 954, 22 giugno 2012*

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